A cavallo tra il XIX e il XX secolo in tutta Europa si assiste alla rapida affermazione di un "nuovo stile" che si presenta come una totale inversione di rotta rispetto ai canoni allora dominanti di un gusto eclettico in cui, spesso in modo totalmente vuoto se non addirittura incongruo, venivano riutilizzati e assemblati modelli del passato, dal medioevo fino al rinascimento e al barocco. Questo nuovo stile, generalmente compreso nella categoria del cosiddetto modernismo, assume in Europa differenti nomi come Art Nouveau, Jugendstil, Modern Style ecc. che già in se stessi esprimono la caratteristica principale: quella della novità, della modernità, della rottura con la vecchia tradizione. In Italia invece questo stile si diffonde e si afferma come Liberty adottando il proprio nome da quello di una catena commerciale di proprietà di Sir Arthur Lasenby Liberty [01] che aveva aperto un negozio in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano per vendere prodotti di arredo, tessuti e oggettistica in stile floreale.
Questa ventata di novità è subito così ben riconoscibile da raggiungere una immediata diffusione e fortuna non solo negli arredi e negli oggetti ma soprattutto nelle architetture; a un gusto completamente rinnovato si associano, nel lasso di tempo tra i due secoli, anche novità tecnologiche e la diffusione di nuovi materiali. Sono proprio questi ultimi aspetti a fare presa su un tessuto produttivo, quello lombardo, storicamente aperto alla creatività, alla eleganza e innervato da una storica sapienza artigianale. Gli apparati decorativi che adornano le facciate e gli interni degli edifici si avvalgono di piastrelle o vetri policromi, di ferri battuti, di cementi modellati non solo provvedendo così a rinnovare una tradizione di assoluto primato ma anche - grazie alle nuove possibilità di serializzare una la produzione di così elevata qualità - gettando in pratica le basi di ciò che chiamiamo design, un settore nel quale la Lombardia conserva ancora oggi un innegabile primato.
Le architetture si diffondono rapidamente e raggiungono un livello notevolissimo; a Milano, il più importante architetto di quella stagione, Giuseppe Sommaruga, dopo un viaggio di approfondimento in Europa, realizza per il committente Ermenegildo Castiglioni, un edificio che pur avendo innegabili connotati del "nuovo stile" non assomiglia a nessun altro. E così, in corso Venezia, nel cuore della più raffinata città neoclassica, nel luogo che aveva indotto Stendhal ad ammettere di preferire Milano alla grande Parigi, sorge, come la dimora di un principe rinascimentale, Palazzo Castiglioni, un vero e proprio unicum a giusta ragione considerato il simbolo del Liberty italiano. Ulisse Stacchini progetta la Stazione Centrale che seppur edificata nel corso degli anni Venti, presenta ancora una forte impronta liberty e poi ancora la città si impreziosisce con le realizzazioni di architetti quali Giulio Ulisse Arata, Giovan Battista Bossi, Orsino Borghi, Alfredo Menni e molti altri.
Il rapido affermarsi di una nuova borghesia, una più ampia distribuzione della ricchezza, una relativa facilità di movimento grazie dallo sviluppo dei mezzi di trasporto, estendono questo processo, iniziato in città, verso la periferia dove il liberty si diffonde non più e solo attraverso l'edilizia residenziale ma pervade anche quella industriale con bellissimi esempi tra cui lo stabilimento Campari a Sesto San Giovanni e le centrali idroelettriche sul fiume Adda; è il nuovo stile che si coniuga alla novità della industrializzazione e della produzione e con un ulteriore passaggio, conseguente e logico, raggiunge quello della comunicazione e della pubblicità. è proprio in questi anni che si inizia ad affidare ad artisti il compito di ideare una grafica in funzione del prodotto dando vita ad un percorso di cui oggi possiamo capire a pieno la rivoluzionaria portata.
Un ulteriore aspetto, sempre sulla linea che connota questo periodo come presupposto all'oggi, è quello del tempo libero e dello svago; nasce infatti l'epoca della moderna villeggiatura e del linguaggio liberty come la forma con cui affermarsi e distinguersi dal passato. Dagli hotel alle ville, dai Kursaal ai Casinò, dalle piscine ai campi da tennis, dai golf ai maneggi, la stagione del liberty fissa un nuovo modo di trascorrere il tempo libero e di occuparsi della propria persona. Oltre allo sporte, i centri termali, medici e fisioterapici propongono in anticipo di quella idea di salute e benessere che oggi è uno degli elementi imprescindibili che permeano la vita di tutti noi. In questo quadro il lago di Como e quello di Varese rappresentano un caso di sicuro interesse dove le istanze di cambiamento e le aspirazioni di una società dinamica e in costante movimento si innestano su una storica tradizione turistica; nei suoi pregevoli scenari architettonici e ambientali, gli straordinari esempi di Brunate sul Lago di Como, Lanzo su quello di Lugano e Campo dei Fiori su quello di Varese, luoghi isolati su alture predominanti, collegati alla città da moderne funicolari, dove vengono edificati i grandi alberghi, sanciscono la definitiva vittoria di un ideale etico/estetico in cui il panorama nella sua accezione più limpida di sguardo aperto sul paesaggio e sulle sue lontananze, diventa il primo fondamento per la scelta delle nuove edificazioni.
Pochi periodi come la seconda metà dell'Ottocento si rivelarono cruciali per la storia dello sviluppo umano: una serie di contingenze "rivoluzionarie" contribuirono a gettare le basi di quel mondo moderno in cui ancora oggi viviamo.
L'acqua che naturalmente scorre dai rubinetti delle nostre case e la luce che le illumina, la bicicletta, l'automobile, il treno e la ferrovia, l'aereo e tanti altri innumerevoli simboli della nostra quotidianità sono frutto del fervore creativo e tecnologico sorto negli anni tra il 1850 e il 1914. Fu durante la cosiddetta Seconda Rivoluzione Industriale, infatti, che si diffusero l'uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica, l'utilizzo di nuove fonti energetiche e la fabbrica divenne il principale luogo di produzione.
La Lombardia può essere annoverata tra quelle regioni che non solo presero parte a tali cambiamenti ma che in buona parte anche li determinarono; il processo di nuova industrializzazione che si diffuse a partire dall'Europa continentale e dall'Inghilterra verso l'Italia trovò soprattutto in alcune aree, tra le quali le province lombarde, un terreno fertile in cui le manifatture tradizionali (in particolare quelle nei settori tessile e meccanico) mostrarono ottime capacità di adattamento alle nuove tecnologie e alla innovativa organizzazione del lavoro di provenienza estera.
All'indomani dell'unificazione nazionale, lo sviluppo dell'industria lombarda interessava soprattutto la provincia e altre località lontane da Milano. Il capoluogo era, infatti, una città in cui le classi sociali più agiate non esitavano ad esibire il proprio status soprattutto in quello che potremmo definire "gusto per il superfluo": si trattava quindi di un grande centro di consumo e di servizi, poco interessato allo sviluppo dell'industria; ancora nel degli anni Settanta le uniche aziende di un certo rilievo che avevano sede in città erano le tipografie.
In questo periodo si formarono le prime società , molto spesso per iniziativa dei capitalisti stranieri, soprattutto tedeschi (Mylius, Kramer), svizzeri (Vonwiller, Meyer) e francesi (Falck), che avviarono nel milanese importanti aziende tessili, chimiche, metallurgiche e minerarie.
Nel decenni successivo, si iniziarono a sorgere a Milano esempi di «industria dei piccoli proprietari», cioè di medie e piccole aziende in cui il proprietario lavorava a fianco dei suoi dipendenti. Questi imprenditori così attivi, non di rado mettendo a frutto esperienze formative all'estero, ben presto si appoggiarono a operai specializzati usciti dalle prime scuole laboratorio e corsi professionali.
In questo clima fervido di grandi cambiamenti industriali e tecnologici maturò rapidamente la necessità di adeguare le produzioni esistenti e di creare nuovi siti industriali in grado di ridurre la dipendenza economica dall'estero e che elevassero l'Italia al livello dei più progrediti sistemi capitalistici occidentali. Tra le novità tecnologiche più significative, anche per la notevole ricaduta da punto di vista sociale, vi fu la modernizzazione del settore dei trasporti; negli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo le distanze si accorciarono e all'interno delle città gli spostamenti diventarono più veloci. Milano fu la prima città in Italia a sviluppare una rete organizzata e così nel giro di pochi decenni, si scoprì capitale industriale di un paese ormai lanciato a grandi passi sulla strada della modernizzazione.
Allo sviluppo dell'industria prima e del sistema economico poi, contribuirono l'introduzione dell'elettricità, dei prodotti chimici, del petrolio e del motore a scoppio: sono questi gli elementi che scandirono la crescita di quegli anni.
18 marzo 1877, Milano, piazza Duomo: primo esperimento di illuminazione elettrica della città.
Un'enorme folla di cittadini era accorsa in piazza a inneggiare al progresso, il mito dell'età moderna lasciava a Milano il segno concreto e tangibile del cambiamento in atto, il frutto più affascinante ed evidente del progresso industriale.
Pochi anni dopo, nel 1881, Giuseppe Colombo, sostenuto da alcune banche, fondò un comitato per promuovere e organizzare diffusione e utilizzo dell'energia elettrica in Italia; l'anno successivo con il nome di Comitato per l'applicazione dell'elettricità, sistema Edison, in Italia venne acquistato il vecchio teatro in via Santa Radegonda 10, accanto al Duomo.
Qui, tra polemiche e consensi (l'edificio sorgeva su un convento di benedettine eretto sulle antiche rovine di un tempio romano), il 28 giugno 1883 veniva inaugurata la Stazione di Santa Radegonda, la prima centrale termoelettrica a carbone in Europa e la seconda nel mondo (dopo quella di New York del 1882) per la distribuzione di corrente continua. Nel giro di pochi anni il Comune affidò al Comitato Edison l'illuminazione delle strade più importanti e dei luoghi pubblici più frequentati: l'illuminazione elettrica si diffuse rapidamente a Milano, che assunse in breve tempo l'aspetto di una tipica città moderna. «Tutti i suoi abitanti sono avvinti da una fitta rete di rapporti incessanti» e continuamente si incontrano e si conoscono tra vie e piazze illuminate dalla «Fata benefica».
Per far fronte a un continuo aumento della richiesta di energia, la città venne presto munita di una seconda centrale termoelettrica in via Bramante 42, che entrò in funzione nel 1897. Tale struttura doveva garantire non solo l'illuminazione della città, ma soprattutto l'efficienza del servizio tranviario urbano indispensabile al collegamento tra le zone più distanti della città.
Degli stessi anni è la Centrale idroelettrica Bertini di Paderno d'Adda, attivata dalla Edison per produrre l'energia necessaria a far funzionare la rete tranviaria in continua espansione e ad alimentare alle industrie collocate lungo il tracciato.
Questo impianto diventò il «capostipite del processo di elettrificazione dei corsi d'acqua» a partire dalla Valtellina, che nel giro di pochi anni diventò di fatto il "serbatoio" di approvvigionamento elettrico per Milano e provincia.
La decisione del 1902 di utilizzare in ogni modo le risorse idriche per aumentare la produzione di energia porterà allo sfruttamento dei fiumi Adda e Ticino. Lungo il corso del primo, furono realizzate la Centrale idroelettrica Esterle a Porto, d'Adda e Centrale idroelettrica Taccani a Trezzo, da subito considerata un «capolavoro di ingegneria» per la perfetta simbiosi tra architettura e tecnologia e, soprattutto, tra tecnologia e natura; sul Ticino fu inaugurata la Centrale idroelettrica di Vizzola,quattro anni dopo, quella di Turbigo e nel 1906 quella di Boffalora.
La realizzazione di strutture di questo tipo rivelava un doppio scopo: da un lato la volontà di sfruttare le risorse del territorio, dall'altro il desiderio conferire all'opera dell'uomo il segno di un epoca nuova attraverso scelte estetiche accurate che mai prima di quegli anni avevano coinvolto gli edifici della produzione.
Mentre lungo i fiumi si insediavano le centrali idroelettriche "generatrici" di energia, a Milano il Comune nel 1903 metteva in cantiere la costruzione della Centrale termoelettrica Elettrica Trento, nell'omonima piazza. Un anno e mezzo dopo l'officina iniziò a funzionare, fornendo l'energia necessaria per l'illuminazione pubblica di tutta la città. La Centrale di piazza Trento rappresentò il momento di rottura del monopolio dell'Edison nel settore elettrico lombardo, avviando il processo di municipalizzazione di quelli che erano considerati i servizi pubblici.
Il processo di municipalizzazione culminò in un referendum del 1910 che decise della nascita dell'Azienda Elettrica Municipale (A.E.M.), alla quale il comune conferì i precedenti impianti e che presto iniziò a costruirne di nuovi, come la Centrale della Boscaccia Nuova (1917), aggiunta all'officina di Grosotto, e quella del Roasco o di Grosio (1922); a Milano, invece, avviò la costruzione di una stazione di conversione di energia in via Benedetto Marcello.
Nel frattempo, erano entrate in campo alcune società private, che nei primi due decenni del secolo realizzarono numerosi impianti, come la Società Idroelettrica Italiana, la Società Lombarda Distribuzione Energia Elettrica e la Società per Imprese Elettriche Conti e C. Quest'ultima, fondata nel 1901 dall'ingegnere Ettore Conti avviò il processo di elettrificazione della Val d'Ossola con la costruzione della Centrale idroelettrica di Verampio affidando dell'architetto Piero Portaluppi la progettazione degli edifici. Interessante sottolineare anche l'intervento di un privato dal forte bisogno di energia elettrica che sceglie di diventare «autoproduttore» come la Società Anonima Acciaierie e Ferriere Lombarde (Falck), che costruì la Centrale di Boffetto.
La realizzazione di tutte queste centrali fu l'esito di una globale visione d'insieme, per cui l'uomo interveniva sulla natura per sfruttarne le risorse e la natura diventava l'elemento determinate di un ampio progetto di rinnovamento. Il raggiungimento di questo obbiettivo prevedeva un nuovo tipo di architettura che se da una parte aveva lo scopo di contenere le più recenti applicazioni tecniche e tecnologiche, dall'altra non rinunciava all'obbligo di dialogare con l'ambiente in cui veniva inserita.
Mentre il territorio industrializzato aumentava, la necessità di collegare le più distanti zone della regione in maniera rapida ed efficace si rivelava sempre più l'elemento strategico per poter assecondare uno sviluppo in rapidissima evoluzione.
Il principale mezzo di trasporto era negli ultimi decenni dell'Ottocento il tram: nel 1876 per collegare Milano a Monza si era inaugurata la prima linea tranviaria a trazione animale; questa, però, prolungava solo di pochi chilometri gli spostamenti fuori città e, soprattutto, non riusciva a offrire trasferimenti veloci. Questi limiti vennero superati prima con l'introduzione della trazione a vapore, grazie alla quale le corse poterono essere più veloci, frequenti e sicure e successivamente, agli inizi del '900, grazie alla elettrificazione della linea che permise di rendere ancora più rapidi gli spostamenti e consentì di espandere ulteriormente le linee.
Fondamentale per gli spostamenti nel milanese, la tramvia elettrificata si dimostrò essenziale anche a Como, dove tra il 1899 e il 1906/8 raggiunse la massima estensione nel territorio urbano. Nei medesimi anni, anche la città di Varese si stava dotando di mezzi così moderni: i due centri urbani si trovarono pressoché contemporaneamente a raggiungere il «notevole traguardo» del processo di elettrificazione urbano ed extraurbano.
Nel 1879 erano state anche inaugurate le Ferrovie Nord Milano, un sistema ferroviario «vicinale» che ancora oggi collega il capoluogo alle principali città della Lombardia settentrionale.
La tranvia e le ferrovie «vicinali» contribuirono da subito allo sviluppo commerciale dei centri minori, che le Ferrovie dello Stato avevano escluso dalle proprie tratte e che ora erano collegati alla città. Le ferrovie lombarde, però, a differenza delle tranvie, avrebbero dovuto aspettare ancora un paio di decenni per l'elettrificazione; il processo fu avviato soltanto nel 1929, per concludersi a metà del XX secolo.
In questo modo Milano divenne centro ferroviario più importante del Regno d'Italia; la città era ormai il nucleo di una fitta rete di comunicazioni, suburbane ed extraurbane.
Lo sviluppo della ferrovia consentì l'aumento dell'afflusso in una città sempre più popolata di merci e di generi alimentari ma anche fu lo strumento indispensabile per lo spostamento delle persone - dalla periferia al centro e viceversa - conseguente alla crescita incessante delle attività economiche. Il conseguente aumento del traffico portò all'ampliamento e alla moltiplicazione della stazioni fino a quel momento concentrare a Nord e a Est della città.
Alla Stazione Centrale di Porta Nuova e alle stazioni di Porta Ticinese, di Porta Genova, di Porta Garibaldi, del Sempione, andarono presto ad aggiungersi quella di Porta Romana e Rogoredo.
Il segno più tangibile del grande sviluppo delle comunicazioni furono i grandi ponti ferroviari; queste strutture divennero testimoni del progresso costruttivo che stava superando le tradizionali tecniche murarie; grazie all'impiego del ferro, si riuscirono a realizzare «innovative soluzioni estetiche e strutturali» eccezionali, come il Ponte Viadotto sull'Olona (1884-1885) e il Ponte di Paderno sull'Adda (1889).
Ai sistemi di comunicazioni ferroviari e tranviari si aggiunse, tra gli ultimi anni dell'Ottocento e i primi del Novecento, la realizzazione delle funicolari: Como e Varese inaugurarono numerosi impianti indispensabili ad assecondare il nascente gusto per la villeggiatura della zona prealpina. Per i trasporti sui laghi dove il turismo si stava rivelando sempre più come un non trascurabile fattore di crescita economica, l'elemento determinante fu l'incremento della navigazione a vapore; dal 1826, anno della sua inaugurazione sul Lago di Como, i vaporetti rappresentavano la "naturale" continuazione dei sistemi di trasporto terrestri che dovevano far fronte all'aumento esponenziale del flusso del turismo straniero, in conseguenza dell'apertura del traforo ferroviario del San Gottardo (1882) e diretto verso i tre grandi laghi al confine con la Svizzera, secondo un percorso che univa il Lago Maggiore a quello di Como, passando per il Lago di Lugano. Per questi motivi nel giro di pochissimi anni si sviluppò una fitta rete logistica e di trasporti, costituita da treni e piroscafi e da lussuose infrastrutture turistiche e per il tempo libero sulle rive dei tre laghi.
Tale consapevolezza trovò massima espressione nel 1925, all'apertura dell'Autostrada Milano-Laghi, la prima autostrada al mondo.
Le tradizionali manifatture tessili e metallurgiche si aggiornarono e si modernizzarono: i prodotti realizzati da operai specializzati venivano ormai proposti anche in un mercato più ampio, che usciva dai confini nazionali. Industrie metallurgiche, chimiche, elettromeccaniche e della gomma si diffondono lungo il territorio, cambiando definitivamente il paesaggio lombardo in un processo di erosione degli spazi agricoli ancora sostanzialmente in atto; la modifica dell'ambiente fu il prezzo da pagare allo sviluppo dell'economia del Paese.
Quali furono i settori più attivi? Intorno al 1880 era arrivata dalla Gran Bretagna la bicicletta, il cui uso si diffuse abbastanza rapidamente. Alla fine del secolo già circolavano per Milano biciclette "artigianali", realizzate da alcune fabbriche meccaniche già affermate; un esempio tra tutte lo offre la Prinetti, Stucchi & C., azienda produttrice di macchine da cucire che nel 1892 avviò la costruzione di biciclette e dieci anni dopo quella di moto. Per le macchine da cucire erano necessarie la massima precisione e la capacità di produrre pezzi identici: il medesimo procedimento necessario anche per la realizzazione di una bicicletta.
Su queste basi nacque anche un nuovo prodotto, la motocicletta; si trattava, infatti, del frutto di un'invenzione «collettiva» nata grazie alla realizzazione del motore a scoppio e grazie all'irrobustimento e miglioramento continuo dei telai dei veicoli. Le prime moto arrivarono dalla Germania attorno alle metà degli anni '90 e già cinque anni dopo circolavano per le strade i primi modelli italiani, tra cui quelli della Prinetti, Stucchi & C. e quelli della Edoardo Bianchi & C.
Esempio della vivace intraprendenza di molti nella Milano di fine '800, Edoardo Bianchi si mostrò prototipo perfetto d'imprenditore. Imparato il mestiere di meccanico, nel 1879 il giovane Edoardo aprì una bottega di apparecchi vari. Qui nel 1886 cominciò a costruire modelli "all'inglese" di biciclette e, pochi anni dopo, realizzò la prima bicicletta a motore, a cui presto seguì la motocicletta.
L'altro settore che trovò terreno fertile nel nascente tessuto industriale milanese fu quello dell'industria aeronautica; si tratta di un settore formato dalla confluenza di varie esperienze produttive, tra cui fondamentale quella motoristica.
I primi a cogliere le opportunità dell'industria aeronautica sono i fratelli Gianni ed Federico Caproni. Questi, con un apparecchio in fase di costruzione e due operai, nel 1909 si trasferirono dal Trentino alla Cascina Malpensa. Qui l'anno successivo fondarono il Gruppo Caproni una fabbrica dove venivano costruiti i biplani e dal 1912 i monoplani tanto richiesti dalla Stato durante la Prima Guerra Mondale.
Interessante è la vicenda dell'impresa varesina dei fratelli Macchi, proprietari di una fiorente fabbrica di carrozze e ruote. In vista di un concorso bandito dall'esercito per l'assegnazione della costruzione di un aereo completamente costruito in Italia, i Macchi raggiunsero un accordo con l'impresa aeronautica francese Nieuport. Nel 1913 nacque la Nieuport - Macchi con stabilimento a Varese, dove venivano costruiti modelli di velivoli per l'esercito italiano.
Gli imprenditori, percorrendo con energia ed entusiasmo la via dell'modernizzazione, avevano saputo accogliere (e vincere) anche la grande sfida economica e tecnologica dell'aeroplano, una tappa fondamentale che contribuì al rilancio dell'industria meccanica di tutto il Paese.
Quando nel 1895, la ditta londinese Liberty and Co. aprì un negozio a Milano, fecero il proprio ingresso in Italia gli oggetti decorativi secondo il più aggiornato Modern Style.
L'essenza dello stile moderno si fondava sul radicale rifiuto dei principi e delle regole d'accademia e sul desiderio del raggiungimento di un'artisticità globale, estesa a tutto, che connotasse ogni oggetto e che, d'altro lato, fosse comprensibile a tutti; ciò portò in Italia un linguaggio artistico modellato su linee sinuose ed eleganti e marcato da un forte grafismo.
Nei vari paesi europei, queste caratteristiche assunsero declinazioni differenti, che si manifestarono non solo in una varia produzione, ma anche nel nome che i movimenti artistici vennero ad assumere: nacquero, così, sulla scia dell'Arts and crafts scozzesi e inglesi, l'Art Nouveau di matrice belga e francese, lo Jugendstil tedesco e austriaco. In Italia, infine, si sviluppò la declinazione più tarda, il Liberty, che mutuò il proprio nome dalla ditta londinese estendendone il significato all'intera produzione artistica "in stile".
Gli ultimi due decenni dell'Ottocento videro una convinta e appassionata affermazione dell'individualità dell'artista e della sua creatività, liberata da vincoli e regole accademiche. Forti dell'autonomia che stavano conquistando, pittori, scultori e architetti modernisti si abbandonarono all'universo della linea. Sinuosa, spezzata, geometrica e fortemente marcata, la linea "modernista" si muoveva orgogliosa in direzione di un forte decorativismo. Decorativismo che arrivò a toccare tutti i livelli della produzione artistica (pittura, scultura e, soprattutto, architettura), fino ai confini dell'artigianato e a superarli, intrecciandosi con le esigenze della neonata industria.
L'arte Liberty «esile sino al filiforme e tuttavia subito sovraccarica di circonvoluzioni e ghirigori» poteva soddisfare i desideri di qualsiasi tipo di committenza, soprattutto se appartenente alla nuova borghesia imprenditoriale, classe dalle numerose sfaccettature e dalle molteplici attività: committenti, produttori, artisti e industriali erano coloro a cui la nuova tendenza artistica offriva il mezzo più idoneo per celebrare un raggiunto status economico e sociale e a offrire, grazie alle grandi esposizioni che caratterizzarono quegli anni, il palcoscenico su cui esibire le novità della produzione tecnologica e industriale di cui questa stessa nuova borghesia era in buona sostanza la principale artefice.
Il mondo del Liberty fu quindi caratterizzato da un vivo interesse per i prodotti d'arte applicata, cioè per tutti quegli che rapportavano l'arte con la quotidianità e con il mondo del lavoro, in particolare con la moda e con l'industria. Ciò era reso possibile dalla sostanziale comprensibilità e immediatezza di una «sintassi tutta ispirata alla natura vegetale soprattutto, squisita ed espressiva» che sempre caratterizzò il Liberty.
In Europa, il Modern Style strinse un forte legame anche con il mondo dell'artigianato, fino a improntare con le sue caratteristiche estetiche anche la produzione delle "arti minori" e di oggetti di uso quotidiano.
Per quanto riguarda le arti decorative, nei settori dell'ebanisteria, della ceramica, dell'industria tessile, del ferro artistico, della vetrata d'arte e dell'oreficeria, il Liberty trovo il campo d'azione più adatto per affermarsi, potendosi muovere parlando il proprio linguaggio "moderno", ma agendo nel solco della più antica tradizione artigianale. In Italia, Milano fu il punto di partenza: l'artigianato si aggiornò presto sulle novità europee e dal capoluogo lombardo l'arte Liberty si diffuse in tutta la Penisola.
In una società in continuo movimento e alla perenne ricerca di "simboli", l'arte era diventata arte per tutti, era sinonimo di vita e le arti decorative si avviavano verso l'affrancamento dal puro prodotto artigianale per accedere alla produzione seriale. L'arte si era fatta «modello dell'abitare moderno, parametro del gusto e veicolo fondamentale per l'affermazione di uno stile».
Il settore in cui il Liberty trovò terreno più fertile fu quello dell'ebanisteria, che saldava il linguaggio Art Nouveau con la lunga tradizione floreale degli intagliatori italiani. Il lavoro specializzato degli ebanisti fu spesso affiancato da quello di architetti e artisti, chiamati a "progettare" il mobile: era una primissima e modernissima fusione tra tradizione artigianale e innovazioni tecniche.
Alla funzionalità, peculiare caratteristica del mobilio, negli ultimi anni del Ottocento, si aggiunge una forte valenza estetica e quando la committenza era importante, inoltre, venivano utilizzati materiali di grande pregio che portarono alla produzione di oggetti di altissimo artigianato. I grandi protagonisti di questi periodo sono gli artisti, che proprio in questi ultimi casi, potendosi sganciare dalla produzione seriale (propria di mobili e oggetti di destinazione più popolare) per seguire un linguaggio autonomo destinato a una clientela d'elite, produssero veri e propri capolavori.
La Lombardia diede all'Italia intagliatori ed ebanisti che al genio dell'arte seppero unire l'intraprendenza dell'imprenditoria. Il più impegnato e rigoroso fu Eugenio Quarti, che con fantasiosa maestria univa linee continue e modulate alla nettezza del segno. Quarti fu il primo capace di «metamorfizzare l'ebanista-artigiano in promotore industriale senza mai perdere di vista il puntiglioso controllo sui materiali impiegati e sulla perizia esecutiva». A un pubblico formato per lo più dalla borghesia industriale e milanese, egli offriva ambienti dalle forme ricercate e dalla composizione unitaria, con impostazione e stile omogenei.
Per ottenere ciò, Quarti favoriva scambi tra le diverse specializzazioni artistiche, che, sotto la guida dell'ebanista stesso, si trovavano a lavorare entro un grande laboratorio. Sulla scia delle intuizioni "pionieristiche" del padre, Mario Quarti negli anni '30 del Novecento avrebbe trasformato l'azienda in un'impresa industriale fondata sulla collaborazione con artisti e architetti.
Carlo Bugatti, invece, fu il più eccentrico ebanista di ambito lombardo e capostipite di una famiglia segnata da una forte creatività - i figli Ettore e Rembrandt furono rispettivamente l'artefice delle fortune automobilistiche della Bugatti e un noto scultore -; egli caricava i suoi mobili di eclettici motivi ornamentali ispirati all'Oriente o agli stili antichi. All'irrazionale accostamento delle decorazioni si affiancava, però, la perizia dell'artigiano, che con grande maestria sapeva accostare e lavorare materiali preziosi e delicati diversi. L'estro eclettico-liberty di Bugatti non fu capito dai contemporanei: questi ne acclamavano il lavoro, senza avere il coraggio di acquistare i suoi mobili, e l'ebanista fu presto costretto a spostare la produzione in Francia.
Il terzo personaggio di spicco nel panorama Liberty del mobile lombardo fu Carlo Zen, che si differenziò dalla figura degli artisti-artigiani incarnata da Bugatti o dai Quarti: egli fu un vero imprenditore, al comando di un'azienda che occupava circa duecento operai (un numero notevole per l'epoca) intenti a realizzare mobili "in serie". Nonostante l'indirizzo esplicitamente industriale della sua produzione, la qualità dei manufatti, il cui progetto era sempre affidato ad artisti e architetti, fu sempre eccezionale e sempre riuscì a soddisfare il pubblico medio borghese a cui era diretta.
Nel corso del Settecento, Milano aveva raggiunto livelli europei per la qualità e l'importanza della produzione della ceramica; dopo uno scadimento durante la prima metà del XIX secolo, gli ultimi decenni dell'Ottocento videro una forte ripresa e il consolidarsi di numerose ditte, tra cui spiccano per importanza la Società Ceramica Italiana di Laveno (VA) e la milanese Società Ceramica Richard-Ginori.
Fu la Richard-Ginori, dagli anni' 80 del XIX secolo a inserirsi nella tradizione delle grandi collaborazioni, chiamando scultori e pittori a modellare e dipingere ceramiche. Alla produzione "industriale" fu presto affiancata quella d'arte: si cominciò a guardare non solo alla qualità materica delle ceramiche, ma anche allo stile. Stile che spesso mostrava il pieno e totale assorbimento della fluidità delle forme Liberty anche nel mondo della ceramica. E l'industria si rivelò presto essere il volano della «maniera del XX secolo».
Negli stessi anni, un'altra tradizionale applicazione artistica della ceramica aveva avuto grande diffusione: la terracotta decorativa.
Sulla scia di restauri reintegrativi di numerosi edifici antichi, nacque una sorta di "moda citazionista" che vedeva la ripresa di temi e decorazioni medievali e rinascimentali per le decorazioni in ceramica delle facciate; presto anche lo stile moderno contagiò queste produzioni e invase le fronti dei palazzi con le sue linee fluide e sensuali. Nella produzione di piastrelle di questo tipo, si specializzò la ditta Sprangher & C., dalla quale uscirono anche i sinuosi decori Liberty che ornano la facciata di Casa Galimberti in via Malpighi.
A fine '800 la "capitale industriale" Milano era il polo di maggiore importanza per l'industria tessile in generale, ma era seconda alla città di Como per la produzione della seta. Sin dalla fine del Settecento, infatti, il settore serico aveva determinato le fortune economiche della Lombardia, seguito da quelli del cotone, del lino e della lana.
Negli anni'70 dell'Ottocento, erano stati introdotti telai meccanici di nuova concezione che avevano sostituito quelli di uso domestico, favorendo una rapida "meccanizzazione" della produzione tessile.
In poco tempo le industrie tessili arrivarono a costituire il settore più importante dell'economia regionale dopo quello metalmeccanico. La Lombardia, inoltre, poteva vantare un rinnovamento che era tecnico e, al contempo, di "stile", perché la produzione di tessuti consentiva creare fantasie, abiti e tappezzerie, "alla moda".
Emblematica dello sviluppo del settore tessile nel panorama lombardo di fine Ottocento è la vicenda dell'azienda Frette & C, nata a Monza nel 1860 per la produzione di lino.
Il rapido successo della ditta fu sancito dall'apertura di una filiale e di un negozio a Milano, seguiti nel 1882 da uno stabilimento per la candeggiatura con mezzi chimici a Monza e nel 1883 da uno stabilimento per la tessitura meccanica a Sovico (MB). All'espansione nel milanese, seguì di poco quella a livello nazionale; un grande successo dovuto al fatto che era diventata la ditta fornitrice della Casa Reale.
Un'altra ditta che ottenne un rapido successo fu la Osnago di Milano, celebre per i suoi tessuti da arredamento, i cui repertori erano tutti ispirati agli stili storici del passato. «Durante l'ultimo quarto del secolo, entro il grande fenomeno del revival storico [...] apparve infatti naturale rilanciare la grande tradizione tessile del Rinascimento italiano». Oltre ai motivi decorativi, furono, inoltre, rilanciate anche le più antiche tecniche del ricamo e della produzione di pizzi e merletti.
Il recupero della tradizione antica e, soprattutto, del Rinascimento coprì l'intero ambito delle arti decorative, entro un clima di esaltazione dell'artigianato del passato.
Negli anni dell'affermazione del Liberty, infatti, il ferro artistico e la vetrata della tradizione lombarda videro il proprio momento di "rinascita", assimilando modelli e iconografie "modernisti" alla tradizionale tecnica artigianale.
Massimo esponente dell'arte del ferro battuto fu Alessandro Mazzucotelli, il cui stile assorbì dal Liberty vitalità ed essenzialità. Cancelli, lampade, inferriate...: dalla bottega di Mazzucotelli usciva un'incredibile varietà di opere, tutte accomunate dal medesimo linguaggio energico, a metà strada tra il floreale e l'astratto, in un rigoglioso intreccio di linee. Alla produzione modernista, inoltre, Mazzucotelli affiancò spesso quella "in stile", per la frequente richiesta di ferri battuti da parte di cantieri di restauro di edifici medievali e rinascimentali.
Nell'ultimo quarto dell'Ottocento, anche la vetrata d'arte fu riscoperta e conquistò «una propria totale autonomia dai modelli antichi divenendo uno dei veicoli più immediati e significativi dei nuovi codici estetici e compostivi».
In tale settore, le ditte G. Beltrami & C. e Luigi Fontana furono le principali manifatture italiane. Da queste uscirono vetrate dalla ricchezza sfolgorante ed esotica, in cui il piombo che legava i vetri appariva il naturale intreccio dei racemi e delle linee Liberty. La ditta Fontana, in particolare, si specializzò nella produzione vetrate-mosaico sviluppate su una tessitura bidimensionale di vetro industriale, di costi ridotti e di grande effetto decorativo.
Allo scadere del XIX secolo anche la preziosa tecnica dell'oreficeria subì le stesse "influenze" che colpirono le altre arti decorative. Essa fu pervasa della cultura eclettico-modernista che caratterizzò le arti minori, ma venne anche contaminata da soluzioni legate a modelli del passato; alle linee del primo Liberty, con un forte gusto per l'imitazionei. Tale connubio contribuì alla nascita di pastiche storici, tra elementi antichi e moderni, "in stile" che ancora oggi permettono di riconoscere i prodotti dell'oreficeria in modernista italiana.
I motivi desunti dal Gotico e dal Rinascimento italiano furono indiscussi protagonisti dell'argenteria lombarda fino agli ultimi anni dell'Ottocento, interessando soprattutto i manufatti di destinazione ecclesiastica, quali calici, ostensori e pastorali.
Furono soprattutto orafi del calibro di Eugenio Bellosio e Ludovico Pogliaghi a eccellere in questi due settori occupandosi sia di oreficeria a uso privato che di quella sacra, che ancora manteneva forme legate al passato.
Nella produzione di uso profano, invece, dagli anni'80 dell'Ottocento si affermò uno stile, costruito sui medesimi intrecci di linee sinuose e morbide che definivano i mobili e i ferri battuti dell'epoca: un rinnovamento delle forme che coinvolse tutte le arti decorative. Piatti, bicchieri e posate in argento iniziarono a venire prodotti secondo stilemi nuovi che, anche se non ancora pienamente floreali, seguivano modelli iconografici aggiornati sulle novità di pittura e scultura.
L'atmosfera di "tecnologizzazione" respirata in Lombardia nell'ultimo quarto dell'Ottocento toccò anche il settore dell'oreficeria. Ditte come la Società Treviganti, Galletti e C. e la Fratelli Broggi, impegnate nella produzione di bigiotteria e gioielli, portarono il settore ai più alti livelli di "industrializzazione". Queste fabbriche, infatti, impiegavano macchinari moderni e specializzati per la produzione in serie di bijoux, occupando complessivamente circa novecento dipendenti, contro ai circa quattromila attivi nel settore tessile.
Alcune delle oreficerie nate in quegli anni, come Calderoni e Buccellati, si sono mantenute presenze attive del panorama italiano fino a oggi. E i gioielli, le posate, le cornici mantengono inalterate la poesia e la magia dei loro "antenati" di un secolo fa: linee delicate e avvolgenti definiscono forme preziose. Adolf Hohenstein sfruttò nel manifesto che creò per il gioielliere Calderoni nel 1898 lo stesso linearismo scattante e sinuoso ancora mantiene intatta la propria "modernità".
Come stava accadendo per mobili, ceramiche e per gli altri prodotti delle arti minori, anche nel settore dell'oreficeria gli artisti furono chiamati a disegnare gioielli. Un esempio splendido lo offrono quelli di Agnese Mylius, realizzati per essere applicati a borsette, portaorecchini, spille e spilloni.
La progettazione artistica andò così a intrecciarsi con la realizzazione industriale, offrendo un'arte che era diventata per tutti.
Le innovazioni e le migliorie tecnologiche che caratterizzarono la seconda metà dell'Ottocento si estesero rapidamente a molti settori delle attività tra cui quello dell'editoria si scoprì presto parte integrante del processo di tecnologizzazione che stava coinvolgendo il mondo intero.
Al vertice di questa rivoluzione fu la stampa illustrata di periodici che, attraverso immagini e testi brevi, aggiornava il pubblico sui più recenti argomenti di attualità.
L'ultimo quarto dell'Ottocento aveva visto il passaggio dalla fase artigianale a quella industriale dell'editoria, grazie al miglioramento delle tecniche e delle macchine al punto che presto si poté parlare d'industrializzazione della stampa illustrata. La Lombardia fu la regione in cui si stabilirono le più importanti case editrici italiane; tra queste la Sonzogno e la Fratelli Treves erano in grado di pubblicare qualsiasi cosa: dalle guide di viaggio, dizionari, testi di divulgazione scientifica e romanzi a giornali illustrati moderni ed efficienti.
Parallelamente a quella delle riviste illustrate, acquistò sempre maggior importanza un'altra industria che fondava il proprio successo sulle immagini, quella della pubblicità. Il fenomeno della réclame si sviluppò in Italia sulla scia dei modelli francese e inglese, che attraverso il manifesto pubblicitario avevano coinvolto ampi strati della popolazione e così stimolato l'aumento dei consumi fattore determinante per il progresso tecnologico e industriale. Iniziarono quindi a moltiplicarsi società per la stampa di manifesti, come l'Officina Chiattone e le Officine Grafiche Ricordi; queste commissionavano a pittori "cartellonisti" le illustrazioni e le immagini dei prodotti che dovevano reclamizzare, in una sorta di travaso tra il mondo dell'arte e quello dell'industria: il primo forniva artisti del calibro di Marcello Dudovich, il secondo i mezzi, in un'osmosi in cui precetti artistici e metodologici andavano a confondersi con le conquiste e le novità tecnologiche.
In questi anni assistiamo anche al fiorire della fotografia e del cinema: le due nuove arti trovarono nel capoluogo lombardo "professionisti" e spettatori entusiasti che ne fecero elementi trainanti della cultura del XX secolo; tra i pionieri vi fu Luca Comerio, una figura che si collocò in un ruolo di "ponte" tra le due discipline: da fotografo a cineoperatore al seguito della spedizione italiana in Libia nel 1911.
In questo percorso di crescita verso il raggiungimento dello status di nazione moderna e tecnologica bisogna segnalare la compilazione della prima Guida di Italia, del Touring Club Italiano nel 1914; la Guida sanciva infatti l'adeguamento agli standard dei più progrediti paesi europei, avvenuto nel corso dei primi anni del secolo, per quanto riguarda il modo di viaggiare e di soggiornare e quindi di quel turismo favorito da un migliore conoscenza e valorizzazione del territorio e da una più facile circolazione delle persone grazie al miglioramento dei mezzi di trasporto.
Nato negli anni '30 dell'Ottocento in Gran Bretagna, questo genere di stampa arrivò in Italia una ventina di anni dopo, affermandosi rapidamente come strumento divulgativo di notizie, tendenze e moda. Il giornale illustrato era nato per lettori di bassa istruzione, ma presto riuscì a conquistarsi anche un pubblico colto diventando un ramo molto redditizio dell'editoria del nostro Paese.
In questo contesto a Milano si erano installate le più importanti imprese editoriali italiane e la regione forniva a tutto il Paese circa un terzo della stampa illustrata e il totale primato nella pubblicazione dei giornali di moda diretti al pubblico femminile.
Tra le case editrici si distinse la Treves che dal 1875 pubblicò «L'Illustrazione Italiana», periodico dedicato ad argomenti di attualità e italianità.
Nata sulla scia di riviste come « Il Magazzino» e «L'Emporio pittoresco», «L'Illustrazione Italiana» si mise in luce per varietà e la pertinenza delle notizie che riportava da tutto il mondo, ma anche per la qualità della stampa e delle immagini. Giornale diretto a lettori benestanti si rivelò presto uno status symbol da esibire in salotto o nei locali alla moda.
La grande diffusione e l'impeccabile qualità di stampa di questo tipo di riviste fu possibile grazie alla meccanizzazione dei procedimenti grafici che tra l'altro accelerò l'impressione dell'immagine sulla carta che favorì l'aumento della tiratura delle riviste per far fronte all'incremento dei lettori. Arrivati al principio del Novecento, i giornali illustrati erano ormai diventati un vero business; è interessante notare come all'industrializzazione della stampa illustrata seguì anche l'affermazione di nuove figure professionali, come quella dei giornalisti e quella dei grafici.
La grande diffusione della stampa forniva il "supporto" ideale alla diffusione della réclame: la pubblicità iniziava così un notevole processo di sviluppo sostanzialmente parallelo a quello della serializzazione dei prodotti dell'industria e l'industria stessa trovava nella pubblicità l'indispensabile strumento per commercializzare dei propri prodotti. Milano, "capitale industriale" e sede delle principali imprese editoriali fu al centro di questa vicenda; qui fu creata la prima concessionaria per la pubblicità in Italia, la A. Manzoni & C., che a partire dal 1863 inizio a gestire gli spazi di alcuni giornali, quali il «Corriere della Sera», «Margherita, giornale per le signore» e altri ancora. La prima conseguenza fu quella di organizzare il messaggio pubblicitario secondo regole di comunicazione ed estetiche al passo coi tempi e con una "clientela" di consumatori in rapido aumento.
Nascevano così numerose officine grafiche, come l'Impresa Generale Affissioni Pubblicitarie (IGAP) e le Officine Grafiche Ricordi, che si avvalevano del lavoro e dell'esperienza di artisti come Adolf Hohenstein per la realizzazione di cartelloni pubblicitari.
Le ditte Campari e Pirelli furono le prime investire nel campo della pubblicità in generale e in quello del manifesto in particolare: infatti fu subito chiaro come il veicolo pubblicitario si sarebbe rivelato un fattore determinante per l'aumento dei consumi e quindi l'incremento delle vendite.
A cavallo tra i due secoli, in Italia si videro all'opera alcuni eccellenti cartellonisti, che alzarono tono della comunicazione pubblicitaria: sull'esempio dei francesi Tolouse-Lautrec e Bonnard, italiani come Metlicovitz e Dudovich tradussero l'arte nel manifesto; essi creavano nel nome di finalità che andavano oltre il puro godimento estetico; parlavano a un pubblico colto e benestante consapevole, con il quale comunicavano usando le linee delicate dello "stile modernista". A partire dall'inizio del secolo, infatti, il linguaggio dei manifesti pubblicitari fu pienamente liberty: accanto a figure sensuali ed eleganti si componevano scritte elaborate in funzione dell'informazione. L'immagine pubblicitaria aveva un solo obiettivo: l'immediata presa divulgativa ma al contempo si rivelava un incredibile volano per diffondere una stile e un gusto.
Le peculiarità imprenditoriali della Lombardia portarono la regione ad assumere negli anni '80 un ruolo di rilevo nel campo della produzione e del commercio di materiali fotografici, così come nella diffusione di studi fotografici professionali.
Nel 1889 fu fondato a Milano il Circolo fotografico lombardo, che cinque anni dopo contava 371 soci: una cifra considerevole, che mostrava la forza assunta dall'industria fotografica lombarda di fine Ottocento distinguendosi per quantità dell'offerta e per qualità dei costruttori di materiali e apparecchi fotografici.
Alla documentazione delle attività commerciali e industriali e alla produzione di ritratti, presto si affiancò la riproduzione di opere d'arte, architettura e le vedute di paesaggi. In questi settori la Ditta Michele Cappelli, risultò vincitrice di numerosi premi assegnati alle frequenti Esposizioni fotografiche dell'epoca.
I progressi tecnici maturati tra gli anni '80 e '90 dell'Ottocento consentirono la riproduzione meccanica della fotografia, che ne accelerarono la stampa e ne aumentarono tiratura e diffusione. «La circolazione massificata dell'immagine fotografica creò rapidamente l'abitudine alla sua fruizione soddisfacendo il desiderio di "vero"» e presto la fotografia cominciò a essere utilizzata anche a corredo delle notizie nei giornali illustrati.
Nel 1898 un giovane fotografo milanese riprese con coraggio e incredibile capacità i tumulti che sconvolsero il capoluogo lombardo nei primi giorni di maggio: le fotografie furono pubblicate in due numeri de «L'Illustrazione Italiana», l'unico periodico italiano che all'epoca dedicasse spazio all'immagine di attualità. Il «bravo fotografo pittore» era Luca Comerio che, quasi inconsapevolmente aveva reso l'immagine notizia, diventando uno dei pionieri del fotogiornalismo europeo.
29 Marzo 1896. Questa data rappresenta la nascita del cinema in Lombardia, quando al Circolo Fotografico di Milano fu presentato il Cinematografo Lumiére.
L'evento s'inseriva in quella serie di novità e scoperte che alimentavano il fervore e gli entusiasmi dell'Europa di fine Ottocento. Il cinema, pertanto, trovò un terreno fertile per il proprio sviluppo, alimentato da città ricettive verso tutte le forme di spettacolo accessibili a tutte le classi sociali. In una decina d'anni, si diffusero "sale" e padiglioni ambulanti in cui venivano proiettate le pellicole e, inoltre, si sviluppò una vera e propria industria cinematografica.
Al 1904 risale la prima vera e propria sala cinematografica a Milano, la Edison, in via Cesare Cantù: a questa si succedette l'apertura numerose sale che, nel 1910 arrivarono a toccare la cifra di 50. Nel 1907, inoltre, il fotografo Luca Comerio costituì con Riccardo Bollardi la prima società per la produzione industriale cinematografica nel milanese. Questa pochi anni dopo si fuse nella Comerio-Saffi e, successivamente, divenne la casa Milano-Films, che nei decenni a venire avrebbe tracciato la storia del cinema milanese.
La forza del giovane cinema si fece sentire nel 1909, quando il capoluogo lombardo ospitò il primoConcorso Mondiale di Cinematografia, nella sala del cinema Santa Radegonda. Produttori italiani e stranieri si confrontarono, si scontrarono e scoprirono che, al di là delle differenze tra nazioni, il pubblico era uno solo, "tanto" ed esigente.
L'incremento delle sale e la nascita di società cinematografiche, infatti, erano il sintomo di una richiesta in continuo aumento; se i primi frequentatori appartenevano prevalentemente alla piccola borghesia e alla classe operaia, agli inizi del Novecento gli spettatori che riempivano le sale erano di qualsiasi estrazione sociale. Interessante è sottolineare come il cinema degli inizi, figlio di una mentalità e di una cultura vivace e "moderna", vide l'impegno attivo nei ruoli di regista e anche di produttore di molte donne; queste trovarono in un'industria giovane come quella delle films (il termine, all'origine, trovò nella lingua italiana un'accezione femminile) un «terreno singolarmente favorevole in cui esprimersi».
Parallelo al successo ottenuto nelle sale milanesi, fu quello che il cinematografo conquistò a Como, dove arrivò nel Marzo 1897. Sul Lago le fotografie animate ottennero il vero trionfo due anni dopo, quando il cineasta ambulante Philipp Leilich le proiettò tra i padiglioni della Fiera del Giovedì Santo, a Porta Vittoria.
Furono cineamatori come Leilich a diffondere il cinema in provincia; quella di Como, infatti, per tutto il primo decennio del Novecento vide le pellicole proiettate tra i colori e la gioia festosa delle fiere. Alle sale che venivano aperte in città, il pubblico preferì a lungo quegli instabili baracconi dalle insegne vagamente Liberty, che fecero la prima storia del cinema nelle province lombarde.
Di grande rilievo fu il cambiamento nel costume, sociale e culturale apportato in quegli anni dall'introduzione del cinema una forma di spettacolo più immediata, più facilmente assimilabile al vivere quotidiano che stava soppiantando e rinnovando quello che per secoli era stato il ruolo del teatro.
Agli anni'60 dell'Ottocento si può far risalire la rivoluzione nel settore delle guide turistiche: gli europei potevano rinunciare alle ridondanti cronache di viaggiatori per seguire gli itinerari suggeriti dalle guide di viaggio.
Monopolio in questo ambito lo mantenne il tedesco Baedeker, che tra il 1880 e il 1918 pubblicò una serie di Guide che indicavano a un omogeneo pubblico d'élite le «cose da vedere» nelle principali città italiane.
Emblematico dello sviluppo del turismo in Italia fu il Varesotto: tra gli anni'70 dell'Ottocento e il primo decennio del secolo successivo la zona fu trasformata e da semplice corridoio di passaggio tra i laghi a meta turistica di lusso. A tale trasformazione contribuirono il miglioramento del sistema dei trasporti (tramvia e ferrovia), la costruzione di alberghi a Varese e Verbano e, soprattutto, le indicazioni degli itinerari turistici fornite dalla Guide. Queste consigliavano gli itinerari naturali, descrivevano gli hotel e indicavano i più bei negozi sul corso principale delle città: il villeggiante o il turista di passaggio potevano così scegliere tra gli innumerevoli suggerimenti che le guide fornivano.
Mentre le Guide Baedeker suggerivano il viaggio degli stranieri lungo le bellezze storico-artistiche e naturali della nostra penisola, a Milano prendeva il via un'iniziativa tanto originale quanto fortunata: il Touring Club Ciclistico Italiano (dal 1900 Touring Club Italiano) nel 1895 lanciava la Guida-Itinerario dell'Italia e di alcune strade delle regioni limitrofe. Il volumetto che voleva essere un agile strumento per i soci del club, con suggerimenti pratici sugli itinerari ciclistici della Penisola, riscosse un successo immediato e fu ristampato e ampliato moltissime volte.
Le pubblicazioni del Touring Club Italiano ebbero presto numerose "rivali"; il settore delle guide di viaggio, infatti, era subito diventato fondamentale per l'industria dell'editoria. Furono numerose le case editrici che si cimentarono nella compilazione di Guide turistiche. Tra queste la Fratelli Treves, il maggior editore italiano di fine Novecento che pubblicò un tipo di guida rivolto soprattutto a un pubblico interessato all'arte contemporanea e alle opere pubbliche, piuttosto che ai monumenti storici e all'Antico.
Dopo alcuni decenni di Guide dedicate alle regioni della Penisola e a vari tipi d'itinerari, il Touring Club Italiano iniziò la fortunata collana - ancora oggi esistente - della Guida di Italia, la cui prima redazione durò dal 1913 al 1929: il TCI si avvalse della collaborazione de competenti in ogni disciplina, vagliando ogni centimetro del territorio descrivendo ogni genere d'itinerario (ferroviario e stradale) e ogni località d'interesse turistico.
Nella vivace società di fine Ottocento l'editoria trovò ampio spazio: il libro fu trasformato da manufatto artigianale a prodotto industriale e nel XX secolo Milano si rivelò uno dei maggiori centri della produzione editoriale in Europa.
Le case editrici mostrarono di comprendere subito le «esigenze, articolate e in continua evoluzione, del pubblico dei vecchi e dei nuovi lettori». E fu il nuovo pubblico a costituire il maggiore interlocutore della casa editrice: giornali illustrati, libri, e opuscoli di largo consumo venivano prodotti principalmente per lettori che chiedevano soprattutto notizie di attualità e svago.
Nel panorama di quegli anni, emersero Tito Ricordi, Edoardo Sonzogno ed Emilio Treves, che nelle proprie tipografie stampavano qualsiasi cosa per qualsiasi tipo di lettore. Ogni editore tuttavia tese a specializzarsi in determinati settori. La Fratelli Treves, per esempio, destinò a un pubblico popolare stampa divulgativa e prodotti illustrati (come l'«L'Illustrazione Italiana»), ma concentrò la maggior parte della produzione verso gli interessi della borghesia colta, nella letteratura e nel turismo. Egli fu editore degli scapigliati prima e dei veristi poi e, al contempo, intraprese la fortunata produzione di guide di viaggio, le celebri Guide Treves considerate dai più il "vademecum del viaggiatore".
Lo sviluppo e l'espansione dell'editoria milanese avvennero entro il più ampio processo dell'industrializzazione della Lombardia in generale e del suo capoluogo in particolare.
Il rinnovamento tecnologico delle industrie lombarde riguardò anche il settore tipografico e presto modernizzazione e razionalizzazione trasformarono anche il lavoro in tipografa. La nuova industria editoriale-tipografica del Novecento cominciò a considerare il libro come puro prodotto industriale, come un oggetto piuttosto che come opera "culturale".
Gli anni'80 del Ottocento videro dilagare in Italia la linea fluttuante e flessuosa del Modern Style (Modernismo) europeo, che portava con sé nuovi ideali estetici e formali.
Assunti nomi differenti nei vari paesi europei (Arts and crafts in Gran Bretagna, Art Nouveau in Belgio e in Francia, Jugendstil in Germania, Sezessionstil in Austria), nella nostra Penisola fu in buona sostanza recepito come "Stile Floreale" prese il nome di liberty, in omaggio alla ditta londinese Liberty & Co. presente a Milano dal 1895, con un negozio in Galleria Vittorio Emanuele.
La novità della linea «sinuosa e avvolgente, fluida ed elegante, in continua trasmutazione» fu l'essenza anche dal liberty: a fine '800 stesure cromatiche uniformi fissate entro contorni fortemente marcati divennero il linguaggio di tutta l'arte italiana.
Stile in continua ricerca della bellezza della forma, il liberty trovò nella donna e nella femminilità l'espressione massima della propria estetica. Le forme morbide e delicate della silhouette femminile si lasciavano facilmente coinvolgere dal movimento e dal dinamismo per creare figure sensuali e insieme eteree. La donna veniva raffigurata immersa nella natura, tra gli elementi o in simbiosi con essi o in similitudine con i fiori: in quegli anni la sua immagine oscillò «tra il massimo dell'astrazione e il massimo della forma» e fu identificata in quella della linea. Linea in movimento, donna in movimento; linea disegnata per costruire un ritmo, un equilibrio dinamico.
Dinamico e "movimentato" il Liberty era così diventato lo stile della modernità, che si affermva come stile "emblema" di una neonata borghesia industriale; la donna Liberty, immagine e allegoria "stilizzata", cioè totalmente identificata con lo "Stile Moderno", era una donna sportiva e dinamica, era una donna borghese, era una donna moderna ed emancipata.
Contemporaneamente alla diffusione dello "Stile Moderno", infatti, l'Italia vide anche l'affermazione dell'indipendenza femminile. La Lombardia fu tra i primi luoghi a testimoniare questi cambiamenti: a Milano si trovavano tutte le condizioni culturali, sociali, politiche che potevano permettere l'emergere di una nuova dimensione della vita femminile.
La forte industrializzazione della seconda metà dell'800 nel capoluogo lombardo aveva comportato un aumento dell'occupazione e dell'alfabetizzazione a tutti livelli, anche nel "mondo" femminile. Aumentava così la partecipazione delle donne nella sfera pubblica e aumentava il personale femminile impiegato in attività di tipo professionale. Aumentava, infine, il numero delle donne desiderose di spendere la loro cultura anche fuori dalle conversazioni dei salotti. Furono due gli ambiti in cui maggiormente questo nuovo ruolo della donna si rese particolarmente evidente, quello dei giornali illustrati e quello del cinema.
La componente femminile occupata nell'ambito dell'editoria fu molto rilevante sin dagli inizi: gli ultimi vent'anni dell'Ottocento videro numerose scrittrici di professione impegnate a collaborare con più giornali. Un nome tra tutti: Virginia Treves Tedeschi, moglie di Giuseppe Treves e scrittrice nota con lo pseudonimo di Cordelia, si occupò della direzione di tutte le riviste della casa editrice Fratelli Treves.
Il cinema, invece, nella donna liberty scoprì il pioniere più coraggioso e temerario. Furono molte, infatti, le presenze femminili sui set del cinema muto: il numero delle donne impegnate nella produzione cinematografica risulta decisamente più elevato nei primi due decenni del Novecento che in qualsiasi altro periodo. Non solo dive, ma anche registe, produttrici, sceneggiatrici, montatrici, comiche, stuntwomen legate da un forte desiderio di espressione individuale, queste donne trovarono nell'industria cinematografica lo spazio in cui affermare le proprie capacità e la propria intraprendenza.
Ancora oggi ricordata per il suo ardore e il suo entusiasmo fu Ginevra Francesca Rusconi, meglio conosciuta con lo pseudonimo datole da Guglielmo Marconi, Elettra Raggio. Acclamata attrice della Milano-Films, la Raggio espresse la propria arte in una creatività a tutto tondo e in uno spirito di iniziativa incredibili, scrivendo soggetti e sceneggiature e creando infine la propria casa di produzione, la Raggio Films.
Cineaste e giornaliste della prima ora ottennero quel riconoscimento sociale e culturale pressoché immediato che per le artiste arrivò più lentamente. L'arte al femminile, da sempre caratterizzata da un dilettantismo frutto più di un percorso educativo ormai canonico almeno a un certo livello sociale che di una reale scelta di libera espressione della propria creatività, dagli anni '80 del XIX secolo assunse nuova consapevolezza: molte donne interpretarono le arti come attività a tempo pieno, con professionalità e dedizione. Sull'esempio dell'Accademia di Libera Pittura tenuta dal pittore Filippo Carcano nacquero scuole riservate ad allieve. Finiti gli studi, le giovani artiste aprivano i propri atelier e venivano chiamate a partecipare a Esposizioni e mostre accanto ai "colleghi" uomini.
Pur trovando un certo margine di azione e di affermazione nel cinema, nel giornalismo e nel mondo delle arti, in questi ambienti il lavoro al femminile si trovò nei fatti a concorrere con quello maschile. Vi fu un settore, però, in cui la donna liberty fu vera e unica protagonista: la moda. L'evoluzione degli anni 1895-1905 fu un merito tutto femminile. Contributo fondamentale lo diede Rosa Genoni, creatrice di un abbigliamento moderno, razionale e semplificato: a lei, donna forte e volitiva (tra le prime a lottare contro lo sfruttamento delle donne in fabbrica), si deve la nascita della moda italiana.
Nel vestire il corpo della donna, si seguiva la medesima ricerca che il liberty faceva di una grazia in cui convivessero l'utile e il bello, l'eleganza formale e il ritmo della vita mondana. Stoffe fluttuanti arricchite da pizzi e fiori vestivano una donna liberty comoda e libera, perfetta rappresentazione dello stile che incarnava.
Gli ultimi decenni dell'Ottocento furono caratterizzati da un'intensa espansione economica, da grandi cambiamenti sociali e da un forte miglioramento della qualità media della vita. Tali novità erano destinate a investire la società del tempo e a produrre grandi cambiamenti.
L'industrializzazione, soppiantando l'agricoltura, divenne il perno delle attività umane, diffuse rapidamente le nuove scoperte scientifiche rendendo più facile il lavoro e più comoda la vita domestica.
La modernizzazione in Italia si verificò con leggero ritardo rispetto agli altri paesi, ma fu altrettanto importante e significativa; in Lombardia il settore meccanico e quello tessile che erano tradizionalmente i più importanti, nell'ultimo quarto del secolo, andarono incontro ad un processo di radicale ammodernamento grazie alle novità tecnologiche provenienti dall'estero, si rafforzarono soprattutto le produzioni legate all'abbigliamento e alla moda.
La produzione della seta, quella del cotone e quella della maglieria, i settori che all'inizio dell'XIX secolo avevano dato avvio alla prima rivoluzione industriale, furono di nuovo trainanti e produssero un aumento delle attività esponenziale, legato ai continui "aggiornamenti" alla moda francese, che comportò anche un notevole incremento dell'esportazione.
La moda, come sempre in continua evoluzione, fu caratterizzata da cambiamenti rapidissimi e numerosi che nel giro di due decenni stravolsero l'abbigliamento, in particolare quello femminile. All'inizio di questo processo, se così si può chiamare, la moda italiana che si ispirava decisamente a quella francese, riuscì a lanciare uno "stile italiano" che grazie a pionieri come Rosa Genoni nel corso del Novecento sarebbe diventato modello indiscusso di eleganza.
Negli stessi anni si concretizzò anche una concezione funzionale dell'abito; nell'arco della giornata si cambiava spesso toilette, a seconda del contesto e dell'occasione. Nascono in questi anni a cavallo tra due secoli gli abiti da pomeriggio, le vesti per la villeggiatura, gli abiti da viaggio e i vestiti da spiaggia (da non confondere con i vestiti da bagno). C'erano inoltre vestiti da mattina e abiti da casa, toilettes da visita e da pranzo, da teatro e da ballo.
Tra un cambio d'abito e l'altro maturava una concezione nuova dell'abbigliamento e dell'eleganza: essere eleganti non era solo una questione di modi di fare e atteggiamenti, era anche e soprattutto la capacità di sapere «adattare il vestito alla circostanza, al luogo, all'ora».
L'esplosione della moda fu in strettissima relazione con i più visibili cambiamenti dello stile di vita: Milano ma poteva anche offrire varie e numerose possibilità di svago e di occasioni mondane. L'elite ambrosiana si trovava per una cioccolata calda al caffé Cova o alla pasticceria Santa Margherita; per mangiare toscano si andava al Giannino. La "buona musica" si ascoltava prevalentemente alla Scala, che alla prima accoglieva con orgoglio signore ingioiellate e signori in frac. Nei salotti bene si potevano incontrare i più importanti intellettuali e politici del momento che, accolti da signore vestite eleganti e alla moda, parlavano di cultura, politica e finanza.
Grande novità di questi anni fu lo sport, che praticato o fruito presto divenne "di moda" e contribuì a una prima rottura delle barriere sociali. In Lombardia ciò avvenne con un'energia e una consapevolezza particolari: il pattinaggio, il canottaggio, il nuoto e il ciclismo coinvolgevano membri di qualsiasi classe sociale che gareggiavano senza remore e senza scrupoli "classisti".
E di fronte a questa infinità quantità di attività sportive nacquero gli abiti adatti per praticarle; per lo yachting, per il tennis, per il ciclismo, etc... nacquero abiti funzionali che permettevano di muoversi in tutta comodità.
Le competizioni sportive diventarono subito occasione mondana. Le signore avevano modo di sfoggiare l'abito appena confezionato, che con sapiente eleganza avevano abbinato agli accessori più di moda: guanti, borsa, scarpe...
La Milano liberty, pertanto, non fu solo capitale industriale del Regno di Italia, ma anche capitale della moda e della vita mondana: l'incredibile quantità di novità e cambiamenti che si susseguirono anche in questi ambiti negli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo nascevano solitamente nel capoluogo lombardo, prima di diffondersi nella Penisola.
Negli anni Novanta dell'Ottocento le linee dell'abbigliamento femminile si addolcirono, accentuando la sensualità delle forme. La silhouette della donna si "sfilò" e i vestiti caratterizzati da gonne enormi e corsetti castigatissimi vennero sostituiti da abiti che mettevano in evidenza una vita strettissima su una sottana "a campana" che fasciava i fianchi.
Si andava verso una maggiore verticalità del vestito, che inizialmente fu attenuata dall'accentuazione delle curve; un abbigliamento di questo genere era pensato per una figura slanciata e sinuosa, che presto diventò il modello della donna liberty; ciò indusse le formose e sensuali donne post-risorgimentali a fare le prime diete dimagranti. «Bisogna essere magre» suggeriva con determinazione il settimanale «Margherita», segnalando anche alcuni mezzi per ottenere una linea perfetta.
Emblematico della nuova concezione verticale del vestito femminile fu il tailleur o abito alla mascolina, nato nella più emancipata Gran Bretagna e orientato verso la semplicità e la praticità del vestire. Una giacca lunga dal taglio severo e maschile si indossava su una gonna dritta davanti con profonde pieghe centrali; il tailleur, infine, era completato da accessori quali la cravatta e il gilet, di tipo maschile.
Di origini anglosassoni era anche il teagown, l'abito da casa per ricevere di amici stretti o parenti, caratterizzato da una sottana dritta da un corto strascico e da lunghe e vaporose maniche. diversamente dall'abito alla mascolina, il teagown segnava i contorni di una certa femminilità, chiusa entro l'intimità domestica.
Tale femminilità veniva esaltata dagli abiti per le occasioni mondane: competizioni sportive, prime teatrali, balli concedevano alle forme femminili di farsi fasciare da ricchi tessuti impreziositi da trine, ricami e nastri. Gli accessori, come accade anche oggi, davano il "colpo" finale: ed ecco le signore eleganti infilare tra i capelli un prezioso spillone di Buccellati, sistemare la borsetta in filigrana d'argento di Confalonieri e coprirsi le spalle con una calda e morbida mantellina di cachemire, prima di andare alla Scala.
Accanto al tailleur e al teagown si fece strada la moda delle giacche a maglia; in questo settore di nuovo Milano, vantando una forte tradizione laniera, potè vantare un ruolo di primo piano.
Molto limitato all'epoca era il trucco, considerato disdicevole e, al contrario, ebbero larga diffusione le tinture per capelli. I cappelli, i guanti, gli ombrellini e i gioielli dominavano il regno degli accessori femminili, offrendo alle signore infinite possibilità di scelta.
Si è detto di come gli spunti principali per l'abbigliamento femminile provenissero dalla Francia; talvolta, però, le novità d'oltralpe furono motivo di critica e di forte sarcasmo. Al 1911 risale l'arrivo delle jupe-culotte, una sorta di gonne-pantalone: il capo d'abbigliamento suscitò una forte protesta, essendo considerato usurpazione di un indumento considerato simbolo della virilità.
Si racconta che quando due signore, rimaste innominate, avevano avuto il coraggio di indossare i pantaloni per le vie di Milano, erano state schernite e derise tanto da dover ripararsi in una carrozza per darsi alla fuga.
L'abbigliamento maschile, diversamente da quello femminile, si manteneva più sobrio e era improntato alla tradizione sostanzialmente anglosassone. L'evoluzione dell'vestire fu caratterizzata da un minor numero di variazioni, concentrate prevalentemente tra gli accessori (cravatta, cappello e bastone; pochi gioielli) e la biancheria. Quest'ultima, nella ricerca dell'eleganza, era quasi più importante del taglio dell'abito.
In Italia l'abbigliamento era ispirato a quello dei sovrani e gli uomini guardavano al modo di vestire di re Umberto I. Questi preferiva vestire in borghese con finanziera e cilindro, che facevano contrasto con le gallonate uniformi degli altri regnanti europei.
Il frac era il vestito di cerimonia, indossato ai balli, a teatro e ai pranzi eleganti.
Il sovrano faceva "tendenza" anche nelle botteghe dei barbieri: i gentiluomini italiani avevano i capelli leggermente più lunghi sulla fronte spazzolati all'indietro e corti alle tempie e sulla nuca, in una pettinatura che veniva detta all'Umberto perché seguiva l'esempio del re. Il suo esempio si vedeva anche nei «formidabili baffi fieramente rialzati. I più i giovani, invece, preferivano sottili baffetti che evocavano alle fantasie femminili teneri baci».
Nei primi anni del Novecento l'attenzione maschile si concentrò sulla cravatta, talvolta fermata da una spilla. Tale "culto" si è mantenuto fino ai giorni nostri e anche oggi «la scelta delle cravatte è il particolare in cui eccelle il gusto maschile, perché la cravatta non deve essere vistosa, ma di un'eleganza personale per armonia di colori e di disegno».
La testimonianza più vivace dell'abbigliamento di questi anni sono le riviste di moda, indirizzate soprattutto al pubblico femminile.
Tra il 1861 e il 1920 a Milano nacquero 75 giornali di moda: il numero più alto della Penisola. Tale fenomeno editoriale si inseriva nel più ampio fenomeno dei giornali illustrati. Tutti i grandi editori della stampa illustrata pubblicano anche riviste di moda, che presto diventarono «una specialità milanese» diffusa in tutta Italia dai Fratelli Treves, da Edoardo Sonzogno e da alte case editrici lombarde.
Le pubblicazioni di moda rivolte al pubblico maschile essenzialmente sono riviste professionali indirizzate a sarti e ad altri operatori del settore dell'abbigliamento.
Quelle riservate alle donne, invece, contengono figurini, rubriche dedicate all'abbigliamento, testi letterari, recensioni teatrali, consigli pratici di igiene ed economia domestica, di galateo e informazioni, opinioni e commenti su argomenti di costume e di attualità.
Tra le riviste di moda femminile la più diffusa fu «Margherita. Giornale delle signore Italiane» pubblicata tra il 1878 e il 1921 dai Fratelli Treves e diretta da Virginia Treves Tedeschi.
Il titolo era un omaggio alla regina Margherita di Savoia, considerata modello d'eleganza e di stile da proporre alla donna italiana. «Margherita» e gli altri giornali di moda furono una summa degli interessi femminili della società borghese a cavallo tra Ottocento e Novecento; tra questi, il maggiore quello indirizzato al mondo della moda. Alla moda erano solitamente dedicati la rubrica d'apertura e alcuni articoli nelle pagine interne; inoltre, a ciascun fascicolo venivano allegati figurini, cartamodelli e tavole per ricami, i supporti pratici per realizzare in proprio i modelli presentati.
L'aumento delle riviste di moda andava di pari passo con i mutamenti nella distribuzione dei prodotti destinati all'abbigliamento.
Sono questi, infatti, gli anni in cui la moda iniziava a perdere la sua artigianalità diventando "per tutti"; nasceva così il concetto di "alta moda", con la sua distinzione tra apparenza e funzione e con la centralità attribuita al rinnovo del guardaroba a ogni stagione.
Negli ultimi decenni dell'Ottocento si assistette all'evoluzione delle botteghe di moda: se prima i negozi vendevano solamente accessori o materiali, ora era il momento degli abiti finiti. Dietro o sopra al negozio, c'era il laboratorio dove i prodotti venduti dal negozio venivano realizzati o adattati al cliente. L'evoluzione delle botteghe di moda veniva testimoniata anche da un nuovo modo di esporre l'oggetto in vendita: gli articoli del negozio presentati nella "vetrina" che, affacciandosi sulla strada, fungeva da tramite tra l'interno privato e l'esterno pubblico.
Da questo ai grandi magazzini il salto fu corto e rapido: il caso più significativo era offerto dalla vicenda di Ferdinando e Luigi Bocconi. Nel 1877 i due fratelli aprono l'Aux Villes d'Italie, tre anni dopo rinominato Alle città d'Italia e dal secondo decennio del Novecento La Rinascente; secondo la formula dei grandi magazzini nata in Francia, il negozio era concepito come uno spettacolo visivo in cui il cliente può "recitare" un ruolo attivo. La grande novità dei magazzini Bocconi era data non solo dal fatto che i clienti potevano aggirarsi liberamente nel negozio, ma soprattutto dalla possibilità di scelta tra capi già confezionati e abiti realizzati su misura.
La varietà degli articoli, il loro numero e una buona pubblicità trasmettevano il messaggio che il grande magazzino era sempre perfettamente aggiornato in materia di moda: ciò rassicurava il cliente tipico su fatto che con una spesa non troppo alta poteva accedere ad uno stile moderno e alla moda.
La frenesia del cambiamento degli ultimi anni del XIX secolo si declinava anche in un impaziente desiderio di moto e azione: da una parte, l'esplosione della pratica sportiva e, dall'altra, il forte incremento degli spostamenti turistici erano i due settori allora come oggi dominano una parte considerevole delle nostre abitudini. Il viaggio, così facilmente accessibile, assumeva quindi il ruolo d'indispensabile strumento di conoscenza e perfezionamento culturale di un mondo oramai industrializzato, superando così il tradizionale valore esclusività che l'aristocrazia del Grand Tour gli aveva attribuito.
Milano, al centro della valle Padana e all'incrocio tra le principali vie di comunicazione nazionali ed europee, «Milano la grande» (BAEDEKER 1899) vide la nascita della prima agenzia turistica in Italia, quando nel 1878 Massimiliano Chiari intraprese l'attività di tour operator, organizzando le visite all'Esposizione Internazionale di Parigi; negli anni successivi si affermarono rapidamente i viaggi organizzati in relazione a grandi eventi europei.
«Trovava intanto una propria identificazione collettiva anche l'uso dei nuovi mezzi di trasporto»: il treno, la funicolare e la bicicletta accorciarono le distanze e accelerarono gli spostamenti; nuovi sport, come il ciclismo, contribuirono ad alimentare la «febbre di mobilità» che colpì l'intera società; nel giro di qualche anno il viaggio si trasformava in turismo e sempre più persone ebbero la possibilità di spostarsi per diletto.
Grazie a Luigi Vittorio Bertarelli e a Federico Johnson, nel 1894 nasceva a Milano l'associazione turistica Touring Club Ciclistico Italiano (dal 1900 Touring Club Italiano, TCI), che rapidamente si sostituiva ai vecchi circoli di appassionati di viaggi ristretti ed esclusivi. Spinto da un «amore forte e appassionato» per l'Italia, il Touring Club si affermava rapidamente su scala nazionale, in piena sintonia con la neonata società industriale, volta a sperimentare le novità del cosiddetto "turismo individuale". Il contributo del TCI, inoltre, fu fondamentale per far conoscere l'Italia agli italiani: "pioniere" nell'editoria delle guide di viaggio (cap 3.5) l'associazione forniva guide culturali, cartine stradali e assistenza ai soci, impegnandosi con energia anche nella valorizzazione dell'ambiente urbano e naturale.
Anche la città di Milano si preparava ad accogliere turisti; «la struttura alberghiera si metteva al passo con i tempi» e i modesti auberge di metà-ottocento lasciavano presto il posto a nuove strutture diventate poi prestigiose. Esempio celebre è l'Albergo Milano, aperto nel 1863 e destinato ad accogliere alcuni tra le più importanti figure della cultura italiana come Giuseppe Verdi (che vi trascorse i suoi ultimi anni e vi morì nel 1901) e Gabriele D'Annunzio. L'offerta alberghiera milanese crebbe tanto e con tale rapidità da portare il capoluogo lombardo quanto a ricettività ed eleganza a esser secondo solo a Roma, superando grandi centri turistici come Firenze, Napoli e Venezia.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento il fulcro della fama turistica lombarda erano la regione lariana e i territori varesini, zone legate sin dal Settecento alla tradizione delle villeggiature dell'aristocrazia milanese e internazionale nei mesi estivi e autunnali; la nascita di una nuova e dinamica classe borghese comportava il rinnovamento delle antiche prospettive del viaggio: Milano «serbatoio di "alimentazione" turistica» negli ultimi vent'anni del XIX secolo scopriva un uso intensivo del territorio e del paesaggio limitrofo; quest'ultimo diventava meta di viaggi e gite in cerca di un "clima sano" e alla scoperta di un "bel panorama" (ormai nascosto delle crescenti periferie industriali delle zone urbane).
Meta prediletta della giovane borghesia industriale furono i laghi lombardi e soprattutto quello di Como. Tutta l'area dei laghi era diventata un luogo prediletto del turismo internazionale soprattutto a seguito dell'apertura della linea ferroviaria del Gottardo nel 1882 che permetteva di raggiungere la zona a chi proveniva da Londra, Parigi, Berlino; da Milano grazie alla fitta rete di infrastrutture locali era raggiungibile in circa due ore.
Un tale progresso nel settore dei trasporti, inoltre, favoriva la diffusione della villeggiatura anche tra gli strati sociali che fino ad allora ne erano rimasti esclusi. La nuova concezione del viaggiare prevedeva l'evasione dal quotidiano e il piacere della comodità: le sponde e le alture lariane furono presto arricchite da ville, pensioni e alberghi, che trasformarono il paesaggio in un territorio nuovo. Brunate, Cernobbio, Blevio, Menaggio, conservano ancora oggi testimonianza della breve (ma intensissima) stagione architettonica liberty, «un'epoca evolutiva ed eclettica» la cui arte attira ancora lo sguardo - e l'obiettivo fotografico - del turista del XXI secolo.
Si può dire che le ville costruite negli anni tra il 1890 e il 1920 sulle sponde del Lago di Como siano state inconsapevoli protagoniste del dibattito architettonico Art Nouveau, in quanto frutto dell'esperienza di artisti del calibro dell'architetto Giuseppe Sommaruga e dell'"artista del ferro" Alessandro Mazzucotelli, entrambi guidati dalle esigenze di una committenza "giovane" e dinamica.
Guardarle, scrutarle e ammirarle, camminando tra le strade lariane, rende ancora valide le parole del celebre compositore Franz Liszt: «... se voi vedete passare nei vostri sogni la forma ideale di una donna, la cui bellezza di celeste origine non è un'insidia per i sensi ma una rivelazione per l'anima; se accanto a lei vi appare un giovane dal cuore leale e sincero, immaginate fra loro una commovente storia d'amore e incominciatela con queste parole: Sulle rive del lago di Como».
Milano, estate, fine Ottocento: mentre l'aristocrazia sceglieva località mondane e di prestigio, come il Lido di Venezia e la Costa Azzurra, la nuova borghesia preferiva luoghi più vicini, quali le alture e i laghi lombardi. I più facoltosi costruivano residenze estive; gli altri, invece, approfittano di alberghi o di più economiche pensioni. La fiorente rete di infrastrutture locali (il tram, le linee del le Ferrovie Nord Milano, le funicolari e la navigazione a vapore) rendeva i viaggi più brevi e più comodi, avvicinando alla città luoghi che diventavano obiettivi turistici, concepiti in uno schema di continuità territoriale che vedeva nelle campagne, nei laghi e nei monti luoghi naturali e sani.
Una delle mete privilegiate era senz'altro il Lago di Como, simbolo del paesaggio italiano che aveva ispirato numerose composizioni di Franz Liszt e che era stato celebrato dalle pagine dei I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Le sponde lariane tra gli anni Ottanta e Novanta dell'Ottocento accolgono folle di cittadini, attirati dalle meraviglie di un luogo che Stendhal aveva definito «sublime, dove tutto è nobile e tenero, dove tutto parla d'amore».
Non solo la "fama" romantica della zona, ma anche le cartoline e i manifesti pubblicitari dell'epoca contribuirono all'entusiasta propaganda turistica che invitava alla villeggiatura al Lago di Como e così accanto alle ville antiche ed eleganti affacciate sul lago, facoltosi borghesi iniziavano a far costruire, sotto il segno innovativo del liberty, le loro lussuose dimore.
L'evento che segnò il gusto e la moda di quegli anni l'Esposizione Voltiana del 1909 a Como, celebrazione del primo centenario dell'invenzione della pila. L'esposizione internazionale, che si rivelò occasione perfetta per mostrare al mondo il dinamismo industriale della città, fu di forte richiamo turistico, ma non solo e non più per le rive del lago, ma anche per le alture, come Brunate e Lanzo, raggiungibili con la funicolare.
Da Como poi si poteva facilmente arrivare al Centro Lario grazie ai battelli della Navigazione Lariana che seguivano un itinerario circolare che toccava Cernobbio, dove scendevano gli ospiti del Grand Hôtel Villa d'Este, il più lussuoso albergo italiano dell'epoca, Laglio, Tremezzo, Cadenabbia, la punta di Bellagio, Menaggio, Varenna. La crociera si concludeva di nuovo a Como, dove si poteva riprende il treno per tornare nelle città.
Le ville e gli alberghi costruiti lungo il lago, lasciavano una forte impronta nell'immaginario del turista, in virtù di quel magico insieme tra la sobria semplicità delle case comuni, il rigore e l'eleganza delle residenze più antiche e le esuberanti forme "moderniste" delle costruzioni di fine Ottocento, caratterizzate da una concezione architettonica nuova, alla ricerca di un equilibrio tra modi tardo eclettici e pre-esistenze tradizionali.
Tale concezione trovava una piena espressione sul Monte Tre Croci, a Brunate dal 1894 collegato a Como dalla funicolare.
Ed è proprio Brunate a rappresentare per noi una piccola perla dell'eclettismo liberty; grazie al clima temperato e alla vicinanza a Milano, Brunate divenne nel giro di pochi anni un richiestissimo luogo di villeggiatura ed una eccellente vetrina della nuova società industriale.
Il piccolo paese si popolò rapidamente di ville e giardini contraddistinti dallo stile Art Nouveau, secondo il gusto della borghesia medio-alta. La "giovane" committenza borghese tra l'ultimo decennio dell'Ottocento e il primo del Novecento si rivolgeva ad architetti quali Giuseppe Casartelli e Federico Frigerio che contribuirono a plasmare il profilo Liberty del luogo.
è, quello di Brunate, un Modernismo sorto sull'intreccio tra l'esigenze del committente e il gusto dell'architetto e in grado di offrire suggestive contaminazioni tra revival e le novità artistiche che dilagavano nell'Europa di quegli anni. In questo clima "eclettico" venne costruito il Grand Hôtel Brunate (1893), un edificio a cinque piani il cui fronte, visibile fin dalla sponda opposta del Lago di Como, non passava inosservato per l'incredibile pastiche stilistico-decorativo che lo caratterizzava.
Seguì una decina d'anni la costruzione del Grand Hôtel Milano (1910), la facciata del quale veniva animata dalla fluida linea del Liberty.
Furono però le ville a imporsi per uno spiccato linguaggio modernista che le distingueva l'una dall'altra; una passeggiata per Brunate è una passeggiata attraverso lo straordinario repertorio di stilemi decorativi dell'epoca Liberty.
Tra queste si distinguono ancora oggi per la sfarzosità del gusto e per la preziosità delle decorazioni Villa Pirotta (1902-1910), piccola reggia altoborghese in stile neo-rococò, e Villa Cantaluppi - Giuliani (post 1910), delicatissimo scrigno liberty.
Le vicende architettoniche di Brunate, trovavano un corrispettivo anche nella non lontana Lanzo in Val d'Intelvi, la cui storia segue le stesse linee di quella del Monte Tre Croci. La costruzione di un grande albergo in un punto panoramico sopraelevato, il Grand Hôtel Belvedere, e di una linea funicolare diedero il via all'afflusso di viaggiatori; al contempo, divenuto il luogo celebre, la ricca borghesia industriale-commerciale vi avviava la costruzione di lussuose residenze per la villeggiatura.
A progettare queste ricche dimore venne chiamato Giuseppe Sommaruga, l'architetto più importante del Modernismo italiano. Esempi significativi del lavoro di Sommaruga sono Villa Poletti e Villa Cirla, dove lo stile delicatamente floreale viene assecondato dall'abile manualità dei decoratori. Proprio a Lanzo d'Intelvi, in particolare tra i progetti di Sommaruga trova piena realizzazione quel principio Liberty che vede nella valorizzazione dell'attività artigianale una componente imprescindibile del fare arte.
Lo sviluppo economico partito da Milano nella seconda metà dell'Ottocento raggiunse presto anche la città di Varese: il settore tessile conobbe un forte incremento dovuto da una parte alla modernizzazione degli strumenti e dei processi produttivi, dall'altro a un aumento della domanda d'acquisto dei prodotti locali.
Emblematici del dinamico sviluppo industriale di questi anni sono i paesi di Busto Arsizio e di Gallarate. La costruzione di nuove fabbriche o di nuove ditte comportava l'utilizzo degli elementi decorativi modernisti anche nell'edilizia industriale. Caratteristica prima delle nuove strutture era il legame indispensabile tra funzionalità e decorazione, che conferiva «dignità architettonica anche ai luoghi deputati al lavoro». Esempi eccellenti sono il Cotonificio Ottolini (1896-1898) a Busto Arsizio e la Manifattura Borgomaneri (1902-1908) a Gallarate. Entrambi i complessi avevano la residenza del proprietario accanto allo stabilimento produttivo in uno schema, frequente nell'Ottocento, che univa fabbrica e dimora padronale quale espressione del rapporto gerarchico tra imprenditorialità e manifattura.
Parallelamente alle industrie, si sviluppava una nuova borghesia, che fondava le proprie ricchezze sul successo delle fabbriche e degli esercizi commerciali. Era una borghesia sempre più dinamica e proiettata verso il futuro che progettava palazzi in città, fabbriche in periferia e ville per la villeggiature sul territorio: una dimora lussuosa e alla moda diveniva il mezzo più adatto di affermazione dello status raggiunto.
Se nel centro storico di Varese si continuava, alla fine dell'Ottocento, a costruire sulla scia di una tradizione architettonica sobria, all'esterno della città vedevano la luce residenze estive e alberghi carichi delle caratteristiche tipiche dell'Art Nouveau.
Nei primi anni del Novecento si assistette a un forte incremento del turismo varesino e del lago Maggiore, con l'edificazione di circa centosessanta nuove dimore, tra ville e villini, e un afflusso estivo di circa ventimila villeggianti ospitati in alberghi e pensione.
Le nuove tecnologie, inoltre, consentivano il trasporto di energia elettrica a grandi distanze, permettendo l'impianto di tramvie e funicolari. Queste ultime permettevano anche di scoprire un 'altro' territorio, contemplando panorami sempre diversi e da differenti prospettive. Questo genere di turismo 'mobile' avrà il suo culmine tra il 1911 e il 1914.
La pubblicità, con i seducenti manifesti di Marcello Dudovich e di Leopoldo Metlicovitz mostrava la Varese liberty nelle varie accezioni; se da una parte si celebravano traboccanti boccali di birra, dall'altra si invitano a scoprire le bellezze artistiche e naturalistiche del luogo.
A questi cartelloni pubblicitari, ai depliant coordinati e alle cartoline di inizio '900 si deve parte di quella fama che attirò per decenni numerosissimi forestieri.
Nel 1895 veniva aperta la tramvia elettrica che conduceva dai 374 metri della stazione di Varese ai 577 di quella del Campo dei Fiori: Milano e lo stesso centro di Varese venivano così avvicinati a una zona immersa nel verde dalla quale si potevano ammirare gli straordinari panorami che offrono i laghi e le Alpi Occidentali. Il capolinea della tramvia era in località Prima Cappella, vicino alla via sacra che conduceva al santuario di Santa Maria del Monte. Nel 1905 già 462.000 persone erano salite al Sacro Monte sfruttando le comodità della tramvia, il cui tracciato venne successivamente prolungato fino alla valle del Vellone (1907-1909). Per facilitare ulteriormente la salita furono realizzate due linee di funicolare, collegate alla tramvia del Vellone. La prima, la Vellone-Sacro Monte, costruita insieme al secondo tratto della tramvia, raggiungeva gli 818 metri di Santa Maria del Monte (1909); la seconda, la Vellone-Campo dei Fiori, risaliva i 1035 metri di Campo dei Fiori (1911), località destinata a divenire nel giro di pochi anni meta privilegiata per la villeggiatura.
Nel 1905 si costituì la Società Anonima Varese-Kursaal che si fece promotrice di una serie di iniziative volte migliorare l'accoglienza alberghiera del Varesotto, con l'obiettivo di «conquistare nuovi spazi al turismo residenziale d'élite e facilitare quello più popolare» del Sacro Monte. La ricerca della natura e dell'isolamento dalla frenesia cittadina, ma anche il bisogno di un paesaggio emozionante e scenografico, inducevano a scegliere dei siti in grado di offrire suggestivi belvedere.
Sul Colle Campigli l'architetto Gaetano Moretti realizzò il Kursaal, una struttura destinata ad accogliere il turismo d'élite a cui erano riservati gli svaghi più alla "moda" (1906-1910).
A Giuseppe Sommaruga, attivo a Varese dal 1898, venne affidata la realizzazione del Teatro (1911) e del Palace Hotel (1912-1913).
Del complesso si è oggi mantenuto intatto solo l'edificio destinato ad albergo, che ancora mantiene la funzione originaria.
La Società dei Grandi Alberghi Varesini affidò ancora a Giuseppe Sommaruga la realizzazione di un complesso alberghiero di lusso a oltre mille metri d'altezza, sul versante sud del Campo dei Fiori (1908-1912): nacquero così il Grand Hôtel Campo dei Fiori e il Ristorante Belvedere facilmente raggiungibili in funicolare.
«Monumentale e ardito allo stesso tempo», il complesso venne apprezzato da subito non solo per lo straordinario apparato decorativo, ma anche per il lusso e la comodità delle 130 camere.
Nelle vicinanze, nel 1905, vide la luce Villa Magnani, costruita da Ulisse Stacchini nei pressi della Birreria Poretti, uno degli esempi più importanti di edilizia industriale Liberty del Varesotto; alla ricerca dell'armonia naturalistica e formale, ma pur sempre nei canoni modernisti di un decorativismo mosso, per le sobrie facciate della villa Stacchini riprese i motivi ornamentali della birreria nelle forme e nei colori del grigio e del giallo.
Alla fine del Settecento in tutta Europa cominciarono a diffondersi stabilimenti termali, che sfruttavano sorgenti d'acqua calde o fredde per le loro virtù benefiche; alcune di queste strutture, a inizio Novecento, divennero di gran moda e assiduamente frequentate soprattutto durante i mesi primaverili e autunnali.
Tale pratica prese piede molto rapidamente anche in Lombardia, dove sorsero o si affermarono numerosi stabilimenti termali in Valtellina (Bagni di Bormio, Bagni del Masino, Santa Caterina di Valfurva), a Sirmione e a Boario Terme. La stazione più popolare però fu San Pellegrino, in Val Brembana, che agli inizi del Novecento venne trasformata in un elegante e lussuoso centro termale, agilmente raggiungibile dal 1906 grazie ad una linea ferroviaria a trazione elettrica che collegava San Pellegrino a Bergamo. La maggior parte delle strutture architettoniche furono progettate da Romolo Squadrelli, che con il complesso del Casinò e Kursaal (1904) e il Grand Hotel (1905) trasformò le terme bergamasche in uno dei più straordinari complessi Liberty della regione. La stretta collaborazione con le maestranze artigianali permise a Squadrelli di creare un unicum straordinario tra architettura e arti decorative. L'hotel con una monumentalità maestosa si imponeva agli sguardi per la sua facciata lunga 128 metri e decorata con incredibile ricchezza: sensuali cariatidi, elementi zoomorfi, putti, festoni, elementi floreali andavano così ad animare una struttura architettonica di grande compostezza accademica.
Costruito nel 1905, l'albergo era modernissimo per l'epoca, in quanto provvisto di ascensori, luce elettrica, acqua potabile e telefono in tutte le trecento camere; l'ingresso era illuminato da un gigantesco lampadario ed un monumentale scalone con decorazioni in cemento e ferro conduceva gli ospiti al piano superiore. "Passarono le acque" al Grand Hotel ospiti illustri e celebrità; tra gli altri la regina Margherita nel 1905, e la regina Elena di Savoia nel 1925.
Modernità e avanguardia caratterizzavano anche lo stabilimento termale, costruito da un insieme di edifici stilisticamente Liberty e dotato di strutture all'avanguardia sotto l'aspetto medico, impiantistico e organizzativo.
Un'atmosfera di preziosa ricchezza, di bellezza e di piacere regnava serenamene tra le pareti di San Pellegrino terme, una delle più prestigiose e acclamate località termali d'Europa.
L'euforia e l'ottimismo caratteristici degli anni alla fine del XIX secolo permeavano non solo il settore dell'industria e quello dei commerci, ma anche le scienze, le arti e il pensiero comune della vita. Il Positivismo alimentava la cultura e, per vie traverse, l'opinione pubblica, influendo direttamente sulla vita quotidiana: le esigenze della salute si univano a quelle dello spirito. In questi anni furono scoperti il "tempo libero", il diritto al divertimento e lo sport. Quest'ultimo, ora accessibile a molti, entrava a pieno titolo tra gli svaghi prediletti quale'«espressione felice di energia fisica», la stessa che dal 1896 animò la rinascita delle Olimpiadi.
Milano svolse un ruolo centrale di città dello sport; una delle prime e più fortunate attività sportive fu l'ippica, che nel giro di pochi anni si sviluppò tanto da imporre la costruzione di un ippodromo moderno e capiente. La Società lombarda Corse, fondata nel 1882, affidò all'ingegnere Giulio Valerio l'edificazione del nuovo impianto, inaugurato nel 1888. L'Ippodromo di San Siro si distinse da subito per la funzionalità della struttura, definita da una costruzione sobria e razionale.
Nei primi anni del Novecento il volume d'affari che faceva da cornice al mondo delle corse era già cresciuto tanto da imporre la costruzione, nei pressi dell'Ippodromo, di vari edifici di scuderie e di una pista per l'allenamento: vennero così gettate le basi per una cittadella dello sport, arricchita nel 1926 dallo stadio calcistico e integrata nel 1930 con il complesso ricreativo del Lido. Il nuoto era ben radicato a Milano: nel 1895 era stata fondata la Rari Nantes per iniziativa di Achille Santoni e al 1898 risaliva la prima edizione della gara del miglio marino vinta da Saltarini della società Nettuno di Milano. Il «fior fiore della società milanese» sin dagli anni Quaranta si recava al Bagno di Diana (presso l'odierna Porta Venezia) per sfruttare la piscina lunga cento metri e i numerosi svaghi che il complesso offriva per il tempo libero.
Altro sport sull'acqua molto praticato era il canottaggio: il Naviglio Grande ospitava dall'ultimo decennio del XIX secolo gli allenamenti delle società Canottieri Milano e Canottieri Olona.
Milano vide nascere, fin dagli anni Settanta dell'Ottocento, numerosi club e società sportive; emblematiche in tal senso sono la Società Ginnastica Milanese, che nella palestra civica di Porta Romana allenò per decenni ginnasti e podisti, e la Società di Sollevamento pesi, la prima in Italia. Anche nel calcio delle origini, Milano ebbe un ruolo fondamentale, ospitando nel 1910 il primo incontro internazionale della Nazionale Italiana, che, guidata da Umberto Meazza, sconfisse la Francia 6 a 2. Nel 1899 era stato fondato, per iniziativa di alcuni inglesi cui presto si associarono numerosi milanesi, il «Milan Cricket and Football Club». Questa società si pose immediatamente all'avanguardia, assicurandosi il campionato nazionale. Nel 1908 alcuni soci dissidenti fondarono il «Football Club Internazionale», dividendo da allora il cuore della tifoseria lombarda.
Lo sport che, si può dire, ebbe origine a Milano fu il ciclismo: la nascita nel capoluogo lombardo dell'industria della bicicletta favorì il sorgere di un uso appassionato del mezzo. La bicicletta veniva sfruttata sia per i brevi spostamenti entro le mura cittadine, sia per le gite fuori porta; sorsero presto anche iniziative di più ampio respiro, come le prime «imprese cicloturistiche a grande percorso», come quella del prof. Enrico Frassi, che nel 1872 compì un viaggio da Milano a Vienna a cavallo della propria bicicletta. Un altro popolare esponente del cicloturismo milanese fu Luigi Masetti che nel 1894 percorse 1600 kilometri in bicicletta attraverso l'Italia.
Accanto a questi eventi ciclistici di portata internazionale, vennero alla luce numerosi circoli, che spesso furono promotori di importanti iniziative, come la gara di velocità vinta dal sedicenne Federico Johnson nel 1872. Il primo fu il Veloce Club Milano (1870), dal quale si formò il Touring Club Italiano, il circolo nato «con lo scopo di affermare l'indirizzo turistico del ciclismo contro le infatuazioni sportive».
Nel 1893 Milano contava circa oltre 4000 velocipedi In quell'anno la città ospitò numerose manifestazioni, tra congressi, riunioni e gare. L'anno successivo, invece, vide l'organizzazione delle prime corse ciclistiche femminili. Nel 1909, alle 2:53 del mattino del 13 maggio 127 corridori partirono alla volta di 2447,9 kilometri distribuiti in otto tappe: era il primo giro d'Italia.
Stile che fu coltivato dalla borghesia industriale di fine Ottocento, il liberty si sviluppò essenzialmente in quei quartieri residenziali costruiti per ospitare gli esponenti di questo nuovo ceto imprenditoriale. Se, però, in campo decorativo e figurativo il Modern Style si era affermato con rapidità e decisione già negli anni Ottanta dell'Ottocento, nell'ambito dell'architettura si dovette aspettare il decennio successivo: è del 1892 l'Hotel Tassel di Victor Horta, a Bruxelles, considerata prototipo assoluto dell'architettura modernista.
E nella costruzione di Horta sono presenti gli elementi principali di un'esperienza artistica che, nata in opposizione alla cultura storicista ed eclettica di metà Ottocento, oscillava tra un linearismo dinamico e un ricco decorativismo fondato sulla stilizzazione di motivi naturali. «La linea è una forza», disse l'architetto belga Henry van de Velde, celebrando la fluttuante e scattante linea modernista che definendo la decorazione, si faceva matrice fondamentale della progettazione architettonica.
In Italia questi principi si manifestarono in un diffusa, ma non esclusiva predilezione per l'elemento fitomorfo che diede alla declinazione locale del Modernismo la definizione di "Stile Floreale".
Le facciate e gli interni dei palazzi, ma anche delle strutture pubbliche e di nuovi edifici industriali si caricavano della più energica linearità delle forme naturali; il rinnovamento dell'architettura non aveva a che fare solo con la decorazione, ma anche con una concezione spaziale e compositiva, basata sulla coerenza stilistica e progettuale tra forma e funzione.
Il Modernismo trovava nella borghesia imprenditoriale di Milano e della Lombardia un terreno su cui fare rapida presa; la posizione geografica del capoluogo lombardo, l'ampiezza dei suoi spazi e la struttura urbana (un andamento ininterrotto delle strade dal centro alla periferia) consentirono la costruzione di interi quartieri moderni, eretti secondo i più aggiornati criteri edilizio-decorativi e caratterizzati da edifici non omogenei, ma improntati al medesimo gusto. E l'impronta liberty si è mantenuta nel tempo soprattutto tra «gli edifici residenziali che acquistano pareti plastiche dense e vibranti o fortemente colorate».
Gli elementi decorativo-funzionali dell'edilizia liberty ebbero largo successo anche fuori dai confini della città, nella costruzione di fabbriche "moderne", di centrali idroelettriche e di un nuovo tipo di struttura comunitaria, il villaggio operaio. Non furono rari, infatti, a partite dagli ultimi anni del XIX secolo gli episodi di "nobilitazione" estetica di fabbriche e opifici, in favore di un'integrazione tra l'efficienza produttiva e la qualità del luogo di lavoro. L'accentuato linearismo e l'eleganza decorativa del Modern Style permearono così anche nell'architettura industriale.
Oltre all'edilizia residenziale e a quella industriale, dalla seconda metà dell'Ottocento, in Lombardia i cimiteri sono i luoghi che più hanno conservato e testimoniano ancora oggi lo sviluppo in questo senso delle arti e dell'architettura di quel periodo: il Cimitero Monumentale di Milano, in particolare, diventava un modello di riferimento nazionale con la sua ricchezza di monumenti e statue a testimoniare quanto le peculiarità stilistiche del liberty avessero fatto presa.
Non solo il capoluogo lombardo, ma anche numerosi centri tra la fine del XIX secolo e l'inizio del successivo videro sorgere complessi cimiteriali progettati da architetti vicini al Modern Style. Celebri sono ancora oggi il Cimitero di Crespi d'Adda e il Cimitero di Monza, ai quali rispettivamente lavorarono Gaetano Moretti e Ulisse Stacchini.
Negli anni tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo il capoluogo lombardo fu la città italiana dove più fu forte il legame tra sviluppo economico ed espansione della popolazione urbana. Ciò avvenne all'interno di un'area geografica che andava acquistando le principali caratteristiche di una metropoli.
Questo aumento della popolazione si manifestava in un fiorente sviluppo edilizio: da una parte il sorgere dei quartieri residenziali della nuova borghesia, dall'altra la nascita di strutture che ospitavano la vita pubblica.
La zona che più di ogni altra "subì" le trasformazioni industriali ed edilizie milanesi fu il centro storico.
Nel 1867 fu inaugurata la Galleria Vittorio Emanuele II, che divenne immediatamente cuore pulsante della città, dove «tutte le pulsazioni di Milano si ripercuotono» ancora oggi.
In Galleria, sotto il bagliore notturno dei lampioni e delle vetrine, nei caffè più alla moda, aristocratici, letterati, industriali e artisti si trovavano per sorseggiare un bitter o un'orzata. Possiamo immaginare Boito, Pirelli, Verdi, Dudovich e Carrà tra i tavolini del Campari caffè prediletto anche dal re Umberto I.
Se la Galleria Vittorio Emanuele II è il «cuore nobile e frivolo» di Milano, la zona attorno al Cordusio è il sito destinato alla nuova architettura del settore terziario.
Il riassetto effettuato tra il 1898 e il 1902 attorno a Piazza Cordusio, infatti, definì quella che è ancora oggi la zona più vivace di Milano.
Si trattava perno della circolazione cittadina, dove furono costruiti edifici per le imprese, le banche, le società commerciali e finanziarie e le assicurazioni: l'edilizia del "mondo degli affari".
Tra eclettismo discreto e linguaggio neo-cinquecentesco alla fine dell'Ottocento furono costruite «fabbriche civili e moderne», funzionali e rappresentative di una società in continua evoluzione, come il Palazzo delle Assicurazioni Generali Venezia.
I primi anni del secolo successivo, invece, videro un approccio edilizio più moderno. Gli edifici costruiti in questo periodo connotavano la tessitura di una rete di rapporti economici e di movimenti finanziari; emblematici in tal senso il Palazzo della Borsa e la casa Lancia, simboli della vivace attività dell'imprenditoria milanese a cui rapidamente si affiancarono altri edifici, espressione del dinamismo del "mondo degli affari" e come i grandi magazzini Contratti e i palazzi delle Poste e Telegrafi, della Banca Commerciale Italiana e della Banca d'Italia.
A Milano il Liberty diventò subito anche lo stile dell'architettura residenziale.
Nel 1903 Giuseppe Sommaruga inaugurò Palazzo Castiglioni, offrendo quell'«impietosa e pietrificata imitazione della natura» che sarebbe assurta a manifesto del Modernismo italiano.
Il palazzo da una parte riscontrò un successo enorme, dall'altra, invece, fu ferocemente criticato dai "tradizionalisti". Le critiche furono tali che le sculture femminili del portale dovettero essere rimosse e nel 1914 trovarono posto in quella che oggi è la Clinica Columbus.
L'entusiasmo di gran parte della borghesia imprenditoriale, principale committente dell'architettura milanese del primo Novecento, incentivò la rapida costruzione di quartieri interamente segnati da questo nuovo stile: nel giro di pochi anni, tra il 1903 e il 1911, i quartieri Liberty di Milano erano compiuti.
Nell'area orientale della città sorsero zone totalmente concepite nel gusto modernista, a cui lavorarono architetti del calibro di Giuseppe Sommaruga, Ulisse Stacchini e di Giovan Battista Bossi. è in questa zona, nell'angolo tra via Malpighi e via Sirtori, che Bossi realizzò uno dei prodotti più brillanti dell'artigianalità liberty, la Casa Galimberti. Le decorazioni della facciata, infatti, furono realizzate con piastrelle figurate in ceramica, ferri battuti e motivi floreali in cemento.
Il cuore del Liberty milanese è il "triangolo" formato da Corso Venezia, via Vivaio e Corso Monforte. In questa zona ricca di testimonianze moderniste degni di nota sono i palazzi che due celebri architetti progettarono per loro stessi: la Casa Moretti e la Casa Campanini. La seconda, in particolare, mostra la fortuna dei nuovi materiali dell'Art Nouveau, con l'uso del cemento modellato nelle due imponenti figure femminili che accolgono il visitatore.
Un'altra area a forte concentrazione di edifici modernisti è tra Corso Magenta e Parco del Sempione; all'interno del parco si trova la sede dell'Acquario Civico, l'unica struttura superstite dell'Esposizione Internazionale di Milano del 1906. Anche in questo caso l'apparato ornamentale è ottenuto sfruttando tutte le potenzialità delle arti decorative.
Un percorso per la Milano Liberty che volesse partire dal Palazzo Castiglioni, in Corso Venezia, dovrebbe concludersi in via Buonarroti, a Villa Faccanoni, poi villa Romeo oggi Clinica Columbus. «L'audace accostamento di schemi rettilinei e ampie curvature» della facciata carica l'edificio del vivace decorativismo tipico dello stile Liberty, ulteriormente arricchito nel 1914 dalle sculture che Ernesto Bazzaro aveva realizzato per Palazzo Castiglioni.
Tappa fondamentale in una passeggiata per il Liberty del capoluogo lombardo è il Cimitero Monumentale di Milano. Progettato da Carlo Maciachini negli anni Sessanta dell'Ottocento, il cimitero ospitò dal decennio successivo il riposo eterno dei membri delle famiglie più facoltose della città. Gli stessi che avevano richiesto a Giuseppe Sommaruga, Gaetano Moretti e Ulisse Stacchini dimore emblematiche del loro status, commissionarono ai medesimi architetti tombe che perpetuassero la loro memoria; e il rapporto tra scultura e architettura trovò nella statuaria monumentale-funeraria della stagione modernista un'incredibile varietà di declinazioni.
Il Cimitero Monumentale di Milano, incredibile "museo a cielo aperto", offre al visitatore di oggi un repertorio straordinario di quella scultura che, con l' opera di Leonardo Bistolfi e di Enrico Butti, raggiunse il trionfo del Liberty. Il Sogno del Monumento di Erminia Cairati Vogt (1900) e l'Edicola Isabella Casati realizzati attraverso l'unione di un fortissimo spiritualismo con le nuove forme dello stile ancora oggi, dopo più di un secolo, perpetuano un'immagine dal forte impatto emotivo.
Camminare tra i vialetti del cimitero milanese può aiutarci a entrare con un abbandono forte e sincero nella cultura modernista, per comprendere come quel linguaggio allegorico connaturato a luoghi come questo riusciva a fondersi con le forme di un gusto elegante e raffinato.
Un settore in cui l'architettura Liberty esercitò un influsso notevole fu quello dell'industria: la forte modernizzazione degli impianti produttivi comportava il sorgere di opifici moderni e all'avanguardia.
Nella seconda metà dell'Ottocento, l'architettura industriale italiana seguì gli esempi degli altri paesi, per realizzare edifici funzionali al processo produttivo. Sul modello anglosassone furono costruite fabbriche multipiano, la cui progettazione era legata soprattutto alla produzione del settore tessile. Si trattava di volumi rettangolari caratterizzati da una planimetria semplice e definiti dalla scansione regolare delle finestre. Tali impianti si sviluppavano in altezza per ragioni di economia costruttiva e per limitare la dispersione di energia: la tecnologia veniva ottimizzata, grazie alla «sintonia tra progetto tecnico e progetto produttivo».
Interessante notare come molti opifici furono costruiti con una struttura metallica, che garantiva maggiore stabilità, migliore funzionalità e più sicurezza per gli operai. Fu quella industriale, pertanto, la prima architettura che utilizzò la carpenteria metallica, aggiornandosi sulle novità tecnico-costruttive prima di altri settori. Ciò si sarebbe verificato anche pochi decenni dopo, agli inizi del Novecento, con il precoce utilizzo del cemento armato nella costruzione degli impianti industriali.
Nella seconda metà dell'Ottocento si diffuse anche una seconda tipologia di edilizia industriale, cioè quella del capannone a un piano, detto a shed. I macchinari potevano essere organizzati in maniera più sicura e le condizioni di illuminazione erano rese migliori da ampie finestre. Tale organizzazione degli spazi, inoltre, permetteva una gestione del lavoro più razionale, a ciclo orizzontale, in una fabbrica concepita come «involucro di un processo continuo».
Intenti costruttivi analoghi e soluzioni edilizie omogenee contribuirono durante la belle époque alla definizione di un nuovo paesaggio industriale italiano. Numerosi progetti degli ingegneri industriali usciti dal Politecnico di Milano nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento mostravano varie combinazioni di materiali (legno, ghisa, ferro, acciaio e cemento armato) nell'elaborazione costante del medesimo modulo costruttivo del capannone a shed. A questi progetti si accompagnava la riflessione sulla condizioni lavorative degli operai negli opifici, intorno alla sicurezza degli impianti e alla vivibilità dei luoghi di lavoro: punto di partenza nella progettazione di una fabbrica era «l'accordo tra l'elemento costruttivo e la parte meccanica».
Spesso, inoltre, alla elemento funzionale-produttivo si univa anche il desiderio di autorappresentazione del proprietario della fabbrica, che commissionava una struttura rispondente sia alle esigenze dei processi produttivi sia ai modelli rappresentativo-simbolici della pubblicità del prodotto che da quel luogo usciva. Soprattutto gli opifici urbani richiedevano la progettazione di un apparato decorativo che ne garantisse la dignità esteriore. E agli architetti veniva chiesto di realizzare il disegno della facciata di una fabbrica che contribuisse alla definizione del decoro pubblico.
In grossi centri urbani come Milano, ciò avveniva sia per le imprese private, sia per le commissioni "pubbliche". Del secondo tipo offre un esempio interessante la Centrale Elettrica Trento, costruita nell'omonima piazza tra il 1904 e il 1905.
La centrale non solo fu dotata dei macchinari più moderni disponibili a quei tempi, ma fu anche costruita secondo un disegno architettonico che la integrò al tessuto urbano Liberty.
Per quello che riguarda gli stabilimenti privati, invece, un caso esemplare è dato dal Molino Besozzi Marzoli, costruito tra il 1911 e il 1912. La prorompente monumentalità modernista dell'ingresso colpì l'immaginario di un artista del calibro di Umberto Boccioni, che lo rappresentò in due suoi dipinti: La strada entra nella casa (1911) e Materia (1912).
Nel corso dell'Ottocento prese piede la convinzione che le necessità produttive potessero convivere con i bisogni di una comunità consapevole e perfettamente organizzata: ciò comportò il nascere di nuovi modelli insediativi fuori dai centri urbani.
Tra il 1840 e il 1860 nel nord dell'Inghilterra alcuni imprenditori scelsero luoghi salubri e isolati per installarvi i propri impianti produttivi, attorno ai quali costruirono abitazioni e servizi per gli operai.
Mentre le città erano caratterizzate dalla divisione tra zone residenziali e luoghi di lavoro, i cosiddetti villaggi operai venivano costruiti secondo il concetto opposto: la comunità non sorgeva attorno alla fabbrica, ma sorgeva sulla fabbrica. Organismi di questo tipo non nascevano solo per assicurare all'industria la presenza operaia, ma anche per controllarne lo sviluppo e limitarne l'estensione, entro l'ottica di una logica e razionale organizzazione degli spazi. I villaggi operai erano pertanto concepiti come strutture che ottimizzassero il rapporto tra l'attività lavorativa e le funzioni residenziali.
«Da un punto di vista tipologico, si rileva come l'aspetto fisico più appariscente, in quell'insieme che chiamiamo villaggio operaio, è dato dal complesso delle case e degli edifici» costruiti attorno all'opificio e organizzati intorno ad alcuni luoghi di aggregazione sociale, come il teatro, le scuole, la chiesa, il circolo sportivo o ricreativo e il caffé.
Solitamente le abitazioni erano assegnate secondo criteri gerarchici e si distinguevano in quattro categorie, a seconda che fossero destinate ai dirigenti, ai tecnici, ai capi-operai e agli operai semplici. Le case per gli operai erano spesso dotate di orti e giardini, che dovevano dar vita a una sorta di economia di sussistenza e all'integrazione dei salari provenienti da lavoro in fabbrica.
Da queste soluzioni progettuali gli imprenditori trassero subito notevoli vantaggi, sia pratici sia ideologici. Da una parte, la formazione di una "comunità" attorno all'opificio annullava i conflitti di classe, favorendo la solidarietà tra imprenditori e operai, e rendeva più facile il controllo sociale e politico; dall'altra parte nacque un nuovo e più razionale rapporto tra l'uomo e l'ambiente, ma anche tra gli impianti e le risorse da cui dipendevano.
Anche in Italia si sviluppò ben presto la pratica di costruire abitazioni, quartieri o, soprattutto, villaggi attorno a stabilimenti industriali.
Come i colleghi britannici, i progettisti italiani trovarono nel Modern Style lo spunto per un trattamento decorativo che assecondasse sia i contemporanei sviluppi della cultura architettonica, sia l'affermarsi della neonata cultura industriale. Non sono rari i casi in cui alla logia costruttiva della progettazione è stata unita la ragione ornamentale di una cultura consapevole del valore dell'immagini e dell'involucro delle cose.
La Lombardia propone interessanti esempi di villaggi operai, come il Villaggio di Crespi d'Adda, a circa 15 chilometri da Bergamo e il Villaggio Falck, a Sesto San Giovanni (Mi).
Il capoluogo, invece, presenta alcune strutture che hanno perso la loro destinazione originaria e oggi ospitano altre attività: gli Stabilimenti Breda, le Case operaie di via Lincoln, il Villaggio de Angeli Frua e il Villaggio Pirelli.
Le scoperte scientifiche, le nuove tecnologie, l'incredibile industrializzazione e la forte crescita economica dell'Europa a metà del XIX secolo alimentarono un diffuso senso di ottimismo e di sicurezza sancendo così l'affermazione di una nuova borghesia imprenditoriale. Questa mostrava e celebrava i suoi successi in periodiche, grandiose esposizioni internazionali o universali dedicate ai prodotti dell'industria e delle arti.
Nel 1851, su impulso di Henry Cole e del principe Alberto di Sassonia, marito della regina Vittoria, ebbe luogo a Londra la Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations: all'interno del Crystal Palace, costruito per l'occasione, fu così organizzata la prima esposizione universale. La fiducia nel progresso e nell'industrializzazione che aveva spinto a confrontare la produzione nazionale con quella straniera, a esporre le conquiste della scienza e della tecnologia, si materializzava in oltre 13.000 oggetti che furono visti da oltre 6.200.000 visitatori spesso increduli davanti a tali e tante novità.
Dopo quella londinese, le esposizioni universali, si susseguirono a ritmi incalzanti in Europa e oltreoceano. Attraverso le Expositions ogni nazione intendeva far conoscere e diffondere i prodotti industriali a tutti e tutti erano chiamati a scoprire e ad ammirare i frutti della modernità.
Il protagonista incontrastato di queste manifestazioni era il Moderno, riferito a vari settori e a varie attività, questo chiariva che l' obiettivo principale dell'Expo era «fornire l'immagine di una società in trasformazione, con una nuova impronta di costume e di stile».
Non a caso, infatti, lo stile che impronta l'architettura e le arti di fine Ottocento viene definito non solo "nuovo" (Art Nouveau, in Francia) o "giovane" (Jugendstil, in Germania e Arte Jovén in Spagna), ma anche "moderno" (Modern Style in Gran Bretagna e Arte Mòdernista in Catalogna). Il Modernismo italiano, più conosciuto con il nome Liberty, rientra a pieno titolo in questa categoria di stili innovativi, che trovarono espressione compiuta tra i padiglioni delle Expo degli anni della Belle Époque.
Queste esposizioni, organizzate con l'obiettivo di fornire un'immagine globale del mondo moderno, davano ampio spazio anche alle arti, soprattutto a quelle applicate. Spesso venivano destinati a queste tematiche settori specifici per accogliere grandi mostre di pittura e scultura.
La vera novità di queste mostre è il largo colloquio che l'arte instaura con il pubblico: fino alla metà del XIX secolo l'Arte era stata appannaggio di pochi, comprensibile e fruibile solo da un'élite colta, da amatori e collezionisti e dagli stessi artisti.
Il settore delle Belle Arti talvolta era inserito in maniera organica nel percorso dell'esposizione, spesso era organizzato in un edificio autonomo ed era sempre destinato ad alimentare l'integrazione arte-industria, entro un'ottica che vedeva l'arte svilupparsi con e grazie al progresso (nuovi materiali, nuove tecniche...). Come quella dell'esposizione industriale entro cui era inserita, la mostra d'arte diventò un fenomeno di massa, un avvenimento mondano che arrivava a coinvolgere un pubblico sempre più ampio ed eterogeneo, spesso non preparato, ma sempre e comunque interessato e coinvolgibile.
Non mancavano mai, tra i padiglioni delle esposizioni, caffé, divertimenti e attrazioni, dove gli aspetti mondani della vita moderna erano predominanti e la folla si faceva protagonista assoluta; tali strutture rispondevano al rinnovamento tecnologico e formale dell'architettura modernista.
Le esposizioni universali furono spesso l'occasione per costruzioni "sperimentali", concepite come provvisorie, ma talvolta rimaste in situ fino ai giorni nostri. Esempi celebri sono il Crystal Palace e la Tour Eiffel. Il primo era un edificio prefabbricato ante litteram in ghisa e vetro, realizzato dall'architetto Joseph Paxton per ospitare l'Expo londinese del 1851. Fu installato a Hyde Park, per poi essere smontato e ricostruito nel 1854 in un'altra zona della città dove venne distrutto da un incendio nel 1936. La Tour Eiffel, invece, trionfa ancora oggi nel panorama di Parigi, elevando per 324 metri i 18.038 pezzi di ferro forgiati sul progetto che l'ingegnere Gustave Eiffel aveva realizzato l'Esposizione del 1889.
Il neonato Regno d'Italia cedette subito alla "moda" delle Expositions e nel 1861 a Firenze furono messi in mostra i prodotti della Penisola riunita: finanziata pressoché interamente dallo Stato, l'Esposizione Italiana agraria, industriale, agricola e artistica era nata per favorire la problematica coesione del paese, sia da un punto di vista economico-industriale, sia da un punto di vista culturale.
Vent'anni dopo quella fiorentina, quando in Europa si erano già tenute le più importanti esposizioni universali a Londra (1851, 1862), a Parigi (1855, 1867, 1878), a Vienna (1873) e oltreoceano, la Lombardia ospitò la sua prima esposizione industriale.
Sulla spinta della borghesia imprenditoriale milanese, nel capoluogo fu organizzata l'Esposizione Nazionale industriale e artistica di Milano (1881): lo «scopo puramente industriale» della manifestazione fissò la posizione di Milano a capitale economica dell'Italia. Altro elemento importante dell'esposizione era la volontà di affiancare industria e arti, nell'intento di suscitare interesse non solo nei confronti delle conquiste tecniche e tecnologiche della Penisola, ma anche di stimolare curiosità verso le attività artistiche nazionali.
La mostra, inoltre, rispondeva all'esigenza autocelebrativa della classe imprenditoriale, sancendo la fiorente crescita dell'industria italiana in generale, lombarda in particolare. E il successo dell'esposizione fu tale da rivelarsi una proficua e vantaggiosa operazione finanziaria.
Sulla scia del trionfo del 1881, nel 1894 Milano ospitò le cosiddette Esposizioni Riunite, che includevano undici diverse esposizioni nazionali e internazionali. Scopo della manifestazione, questa volta, non era solo la réclame di nuovi prodotti industriali, ma c'era anche l'intenzione di sottolineare lo stretto rapporto tra tutte le attività che necessitano di una capacità creativa.
Sull'esempio del capoluogo, altre città lombarde si mossero: Como e Varese si imposero come poli d'attrazione di una sorta di primigenio turismo industriale. Varese aprì le proprie porte nel 1901, con un'Esposizione Regionale che presentava i successi industriali della Lombardia.
Due anni prima Como, invece, aveva celebrato il centenario dell'invenzione della pila con l'Esposizione Voltiana.
Sul modello delle "tradizionali" esposizioni universali, a Como furono celebrati sia il progresso delle scienze e dell'industria, sia l'arte.
Con l'avvento del nuovo secolo, Milano fu pronta ad accogliere una vera e propria esposizione universale. L'occasione venne dall'apertura del traforo ferroviario del Sempione (1906), simboleggiato dal celebre manifesto di Leopoldo Metlicovitz: il tema scelto fu quello dei trasporti e di tutto ciò che riguardava il dinamismo, il movimento, la velocità.
Per l'Esposizione Internazionale di Milano furono investiti 13 milioni di lire dell'epoca, le nuove costruzioni furono 225; queste erano destinate a ospitare 40 nazioni e 35.000 espositori e ad accogliere più di 5 milioni, una cifra record per quegli anni.
La linea fluida ed elegante e il florealismo tipici di tanta architettura dell'epoca erano andati a decorare anche i padiglioni e le gallerie dell'esposizione, sottolineando gli stretti rapporti che ormai si erano consolidati tra produzione artistica e produzione industriale. Di ciò è testimone l'Acquario Civico, l'unico edificio sopravvissuto, che ancora oggi fa mostra del forte gusto Liberty che impregnava le architetture dell'esposizione milanese.
Indicativo del cambiamento che il modernismo stava realizzando all'interno della cultura e della società era la presenza all'interno dell'Esposizione Internazionale di Milano, di un padiglione interamente dedicato all'arte decorativa. Ciò sottolineava come ormai si fosse realizzata quella saldatura tra questa e le Belle Arti, una strada già aperta dalla Prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino (1902) dove infatti, le arti decorative erano state le protagoniste assolute della manifestazione, simbolo di quella ormai inscindibile unione tra arte e industria che è da ritenersi il contributo più importante dato dall'Italia a quei frenetici anni di cambiamento.
Paderno d'Adda
è la prima centrale idroelettrica non solo in Italia, ma in Europa. La Società Edison infatti aveva firmato con il Comune di Milano una concessione per l'esercizio della rete tranviaria, liquidando la vecchia società proprietaria degli omnibus e rilevando tutto il suo materiale. A questo punto nel 1895, ottenuti i finanziamenti da importanti banche come la Banca Commerciale Italiana e le concessioni per lo sfruttamento del fiume Adda, la Edison diede inizio ai lavori per la centrale Bertini. Il progetto della centrale Bertini, che partiva dagli studi dell'ing. Cipolletti e fu messo a punto dagli ingegneri Enrico Carli e Paolo Milani, prevedeva, oltre alla la costruzione della centrale vera e propria, il compimento di una poderosa opera idraulica; i lavori erano divisi in tre parti distinte: la diga e il canale d'adduzione, un'officina elettrica e meccanica e la linea di trasmissione per il trasporto dell'energia a Milano. Nella centrale, che sfruttava i 28m. del salto delle rapide a Paderno, la trasformazione dell'energia idrica in energia meccanica veniva attuata da sette turbine. L'acqua, attraverso sette condotte forzate, entrava nelle turbine cilindriche, capaci di compiere 180 giri al minuto e di smaltire 8700 litri al secondo e dall'energia meccanica in corrente grazie ad alternatori trifasici. La centrale poteva cosi trasmettere 9600 kw a 38 km.
Trezzo d'Adda
Nel 1894 Cristoforo Benigno Crespi, proprietario di una fiorente industria cotoniera e fondatore del celebre Villaggio Operaio di Crespi d'Adda, acquistò un terreno sul promontorio di Trezzo, dove si trovavano i resti di un castello visconteo, con il progetto di edificare in quella zona una centrale idroelettrica che fornisse energia al suo cotonificio.
Nel 1897 l'ingegnere Pietro Brunati, che aveva già collaborato con Crespi per la costruzione del villaggio operaio, eseguì lo studio preliminare; nel 1900 Crespi ottenne la concessione per lo sfruttamento delle acque e costituì la "Società Anonima per le Forze Idrauliche di Trezzo sull'Adda Benigno Crespi". L'incarico per il progetto definitivo fu affidato all'ingegnere Adolfo Covi e all'architetto Gaetano Moretti, che dovevano operare entro un quadro organico, in cui «la fabbrica moderna e le esigenze della produzione si "armonizzavano" in ideale continuità di valori con il paesaggio storico e naturale». A Moretti, infatti, Crespi stesso aveva chiesto di operare in accordo con lo spazio circostante, rispettando le preesistenze storiche (il castello) e l'ambiente naturale.
Moretti progettò due ali di lunghezza diversa ai lati di un edificio principale, che fu realizzato tra il 1904 e il 1906; nell'edificio principale venne posta la sala dei comandi e nelle ali laterali, invece, si collocarono sala macchine e turbine, articolando così lo spazio secondo le esigenze delle fasi produttive e le funzioni degli ambienti.
Lo stile della struttura è marcatamente Liberty, ma a tratti riprende le forme medievali del castello visconteo di Trezzo d'Adda. Sulla riva del fiume l'imponente struttura della centrale mostra rivestimenti fatti con una pietra locale, nota come "ceppo dell'Adda", che si saldano alle architetture, dialogano con gli ambienti interni e si confondono con le fratture e le irregolarità delle rocce.
Varese, Induno Olona, Via Valganna
Agli inizio del Novecento gli eredi della Birerria Poretti, Angelo Magnani ed Edoardo Chiesa, decisero di rinnovare l'immagine dell'azienda, ristrutturando lo stabile costruito negli anni Settanta del secolo precedente. Si trattava di una fabbrica "all'avanguardia", non solo per i macchinari e le tecnologie utilizzate, ma soprattutto perché era l'unica in Italia a produrre birra. In virtù di ciò, era necessario fornire allo stabile una veste che ne sottolineasse la modernità. Magnani e Chiesa si affidarono ad architetti stranieri, "importando" in Italia la declinazione sobria e imponente del modernismo tedesco. Nel 1902, infatti, i lavori furono commissionati allo studio Bihl e Woltz e nel 1907 ai fratelli Bihl: nel 1915 l'azienda si presentava nel suo aspetto attuale, quasi mimetizzato nella collina. Obiettivo principale dei Bihl era stato, infatti, la realizzazione di un complesso produttivo che non inferisse con l'ambiente circostante e che quasi vi si confondesse. Furono così costruite strutture dalla geometria sobria ed elegante, caratterizzate di toni grigio e gialle e intessute di motivi decorativi che riprendevano stili differenti come l'arte egiziana, il classicismo e il naturalismo; ghirlande di fiori di luppolo (da cui si ricava la birra) e i tini di ferro battuto, erme femminili, mascheroni, grottesche, medaglioni con frange e gocce, lesene giganti e conchiglie. L'organizzazione degli edifici era gerarchica, secondo un'idea di origine ottocentesca che si rifletteva anche Villa Magnani, la residenza del proprietario costruita da Ulisse Stacchini nel 1915 poco sopra la fabbrica, a sottolineare la struttura del rapporto imprenditore-manifattura. La Birreria Poretti rappresenta ancora oggi una ben riuscita conciliazione tra la funzionalità del complesso produttivo, l'aspetto esteriore e l'ambiente circostante, in virtù di un uso consapevole di quelle che erano le idee estetico-funzionali dell'architettura del Modern Style.
Autore del progetto dello stabilimento e del villaggio fu Ernesto Pirovano, affiancato dall'ingegnere Pietro Brunati e dall'architetto Gaetano Moretti. Dal 1878 i tre lavorarono al progetto, utilizzando un nuovo linguaggio architettonico che univa l'interpretazione degli stili storici alle ricerche architettoniche più all'avanguardia. Essi realizzarono una "campionatura" dei luoghi canonici degli insediamenti civili e di quelli di rappresentanza: oltre alle case degli operai e alle ville per i dirigenti, il villaggio fu dotato di una scuola, di una chiesa, di un cimitero, di un ospedale, di un campo sportivo, di un teatro e di altre strutture.
Alcuni di questi edifici vengono celebrati ancora oggi per l'importante apporto dato alla storia dell'architettura italiana: la chiesa, realizzata da Luigi Cavenaghi sul modello bramantesco del Santuario di Santa Maria in Piazza di Busto Arsizio (comune d'origine della famiglia Crespi), rappresenta un interessante esempio di revival storicistico, nella sua copia letterale del Rinascimento lombardo. Edificio emblematico della gerarchia sottesa all'organismo residenziale del Villaggio di Crespi d'Adda è la dimora della famiglia Crespi, un'imponente villa-castello collocata all'ingresso del paese, prima della fabbrica e un po' lontano da tutte le abitazioni. Un'atmosfera fatta di merlature, torri e sculture incornicia l'abitazione "padronale" del villaggio, costruita sullo slancio verticale ispirato al Gotico lombardo.
Varese, Campo dei Fiori
Nel 1907 la Società dei Grandi Alberghi Varesini decise di realizzare un complesso turistico-alberghiero sul Campo dei Fiori, il monte di 1033 m che domina su Varese e sul suo lago: sarebbe stato una stazione turistica moderna, lussuosa e raggiungibile con facilità e rapidità da Milano, permettendo un forte afflusso di villeggianti "giornalieri", oltre alla presenza della ricca borghesia e dell'aristocrazia.
Già dal 1895 una tramvia elettrica saliva dai 374 m della stazione di Varese ai 577 di Campo dei Fiori, in località Prima Cappella, vicino alla via sacra che porta al santuario di Santa Maria del Monte. Fu deciso di "conquistare" nuovo spazio al turismo e vennero realizzate due linee funicolari che salivano a Santa Maria del Monte e al Campo dei Fiori.
E fu sul versante sud del Campo dei Fiori che venne costruito il complesso alberghiero.
La progettazione e i lavori venne affidata a Giuseppe Sommaruga e all'ingegnere Giulio Macchi, il socio dello studio che il celebre architetto aveva aperto a Varese a fine Ottocento. I due nel 1908 realizzarono il progetto per il Grand Hôtel Campo dei Fiori, il Ristorante Belvedere e la stazione "Funicolare Vellone-Campo dei Fiori"; il cantiere fu aperto nel 1910 e nel giro di due anni la costruzione fu ultimata.
Furono impiegate ingegnose soluzioni costruttive e impiantistiche, che offrirono ai ricchi villeggianti soggiorni nel massimo del lusso, comfort e tranquillità. La tranquillità, infatti, era una delle peculiarità del sito scelto per l'albergo: in un'epoca come quella della Belle Époque, in cui tutti correvano dietro alle novità tecnologiche e alla modernità, la sola richiesta di chi andava in vacanza erano il riposo e la calma.
Chi saliva al Campo dei Fiori trovava alla fermata della funicolare il Ristorante Belvedere: in questo edificio dalle marcate decorazioni Liberty, quando era finito il pranzo, si poteva ballare sino a sera. Poco distante c'era l'albergo, una costruzione di incredibile monumentalità e di fenomenale arditezza costruttiva. Le centotrenta camere furono dotate degli agi e delle comodità adatti ad accogliere una classe turistica d'élite, che nella quiete di montagna non doveva rimpiangere i comfort della città moderna. I saloni avevano finestre enormi che aprivano su panorami "mozzafiato" e dalla quali entrava la luce, che andava ad illuminare gli stucchi, i ferri battuti e le altre preziose decorazioni dell'albergo. Accanto al fasto e all'eleganza, c'era l'organizzazione delle più moderne tecnologie. L'albergo, infatti, per mantenersi autonomamente era provvisto di un generatore di energia elettrica, di un forno per il pane e di una lavanderia.
Per circa mezzo secolo il complesso fu meta di un grande flusso di turismo d'élite, interrotto solo dalle due guerre mondiali. Nel 1958, però, con la chiusura della funicolare, ebbe inizio il declino e meno di un decennio dopo l'albergo e il ristorante cessarono l'attività.
Oggi l'area del Campo dei Fiori, nonostante lo stato di abbandono, ha conservato tutto il suo fascino ed è ancora meta di curiosi, appassionati, studenti d'arte ed escursionisti che sfruttano i vecchi sentieri per salire fino all'albergo. E una passeggiata attorno al Grand Hotel Campo dei Fiori permette di assaporare ancora il gusto delle decorazioni Liberty, in particolare degli splendidi ferri battuti, realizzati da Alessandro Mazzucotelli.
Milano, via Malpighi 3
Si tratta di uno dei più celebri esempi di architettura Liberty a Milano, realizzata dall'architetto Giovanni Battista Bossi tra il 1902 e il 1905. Percorrendo via Malpighi, si distingue la Casa grazie all'esuberante decorazione in ceramica dipinta a fuoco e alle ringhiere in ferro battuto, realizzate su modelli disegnati da Bossi stesso. Formose figure femminili condividono lo spazio della facciata con lussureggianti motivi vegetali; l'uso sapiente dei materiali, crea una superficie dalla forte policromia, che spezza la semplicità architettonica dell'edificio. La ricca policromia dell'esterno, ripresa anche nei negli ornamenti dell'interno ancora oggi propone al passante uno splendido esempio del gusto delle arti decorative moderniste. «Motivi vegetali adornano con toni più discreti anche l'interno, nelle boiserie, negli intonaci e nei ferri battuti delle parti comuni», dando all'intero edificio un'organica armonia compositiva: man mano che lo sguardo sale verso l'alto, il palazzo sembra alleggerirsi.
Milano, via Malpighi 12
Tra il 1904 e il 1905 l'architetto Giovanni Battista Bossi si occupò della residenza del Cav. Giacomo Guazzoni, costruendo per il "quartiere Liberty" di Milano un palazzo di plastica monumentalità; lo sguardo scivola tra i putti e le ghirlande in cemento e si snellisce nelle trame vibranti e incisive dei ferri battuti di Alessandro Mazzuccotelli. Per questa occasione, Bossi affidava la decorazione a originali virtuosismi monumentali, in cui l'utilizzo di più materiali, plasmati e modellati, definiva le forme attraverso un forte contrasto chiaroscurale che affascina ancora oggi l'osservatore della strada. E l'armonia compositiva è tale che cemento e ferro costituiscono al tempo stesso struttura e decorazione.
All'inizio del Novecento l'ingegnere Ettore Conti intraprese la costruzione di numerose centrali idroelettriche nelle valli del Toce e del Devero; una delle più importanti, quella di Verampio sorse, tra il 1912 e il 1914 nel punto di confluenza dei due fiumi. Progettista incaricato, l'ingegnere Piero Portaluppi che realizzò una sorta di castello dallo spiccato gusto eclettico, con il rivestimento in granito locale e con elementi decorativi di matrice quattrocentesca ma anche dettagli "moderni". Il taglio eclettico della struttura rispondeva infatti anche alle necessità delle più recenti tecnologie idrauliche: la centrale di Verampio amplificava infatti «le tendenze proprie e i maggiori impianti idroelettrici del periodo, per cui non solo l'aspetto tecnico, ma anche la veste esteriore rappresentava un vanto nazionale [...] per un'esplicita volontà di nobilitazione formale, in sintonia con quello "spirito idroelettrico" che sembrava dominare le forze più attive del paese».
Milano, via Buonarroti 48
Negli anni tra il 1912 e il 1914 Giuseppe Sommaruga lavorò a una villa per l'ingegnere Luigi Faccanoni, successivamente acquistata dall'industriale Luigi Romeo (1919) e dal secondo dopoguerra Clinica Columbus. In questa occasione Sommaruga diede libero sfogo alle proprie tendenze moderniste, realizzando un edificio carico di espressività simbolica, con l'audace accostamento del movimento teso e vibrante degli ornamenti, alla struttura lineare e regolare delle architetture. è interessante notare che qui, come era accaduto già per Palazzo Castiglioni, l'architetto si occupò della progettazione nella sua totalità, realizzando anche i bozzetti per le sculture e per i ferri, rispettivamente affidati a Ernesto Bazzaro e ad Alessandro Mazzucotelli. Questo tipo di organizzazione permise il raggiungimento della totale uniformità, non solo da un punto di vista formale, ma anche strutturale. Nonostante nel corso degli anni la villa abbia subito modifiche e restauri, la sensazione di armonica uniformità impressa al progetto da Sommaruga è ancora forte e convincente. è sufficiente una passeggiata attorno al villino, isolato rispetto ad altri edifici, per godere della varietà dei punti di vista ideati dall'architetto. Varietà di punti di vista, però, che nonostante gli sviluppi asimmetrici della costruzione, contribuisce a offrirne un'immagine coerente e omogenea. Girando attorno all'edificio, inoltre, si possono notare sulla facciata laterale le due «pietre dello scandalo», le sculture di Ernesto Bazzaro tolte dall'ingresso di Palazzo Castiglioni a causa della loro esagerata sensualità. Nel plastico decorativismo Art Nouveau di Villa Conti Sommaruga riassunse un decennio della propria architettura, in un certo senso concludendo la stagione Liberty dell'edilizia lombarda; questo fu, infatti, l'unico edificio esplicitamente e totalmente modernista della Milano nella Belle Époque.
Milano, via Bellini 11
Tra il 1904 e il 1904 Alfredo Campanini si occupò della propria abitazione, che costruì nel centro di Milano: in questa occasione l'architetto diede prova di un'interpretazione molto floreale e vaporosa del Modern Style. Egli progettò tutte le parti, sia le strutture, sia la decorazione, sperimentando l'uso di nuovi materiali e di nuove tecniche edilizie. Esempio eccellente della "modernità" di Campanini sono le sue sculture del portale d'ingresso, due figure femminili allegoria della Pittura e della Scultura. La plastica monumentalità che le contraddistingue è merito di Michele Vedani, al quale l'architetto aveva affidato la messa in opera dei suoi disegni. I ferri battuti, invece, sono realizzati da Alessandro Mazzucotelli, che segue fedelmente i bozzetti di Campanini. In pratica, sculture in cemento, vetrate, ferri battuti, arredi lignei, ceramiche, affreschi, stucchi, l'intero apparato decorativo è dovuto al solo progetto dell'architetto che nella costruzione della propria dimora può lasciarsi andare alla più audace fantasia.
Milano, via Pisacane
Percorrendo via Pisacane, strada particolarmente "mossa" dal linearismo vivace della decorazione Liberty, l'occhio del visitatore odierno si fa catturare da un fronte un poco più rigido degli altri, caratterizzato dal contrasto cromatico tra l'intonaco chiaro al centro e il cotto ai lati: si tratta di un edificio progettato da Ulisse Stacchini, Casa Cambiagli: una struttura di severa compostezza, mossa dai cementi modellati a motivi floreali e dai ferri battuti, che animano la facciata.
Milano, Corso Venezia 47-49)
Nel 1904, a lavori conclusi e inaugurazione avvenuta, il palazzo fu immediatamente oggetto di critiche feroci: per ornare l'ingresso l'architetto Giuseppe Sommaruga aveva fatto realizzare dallo scultore Ernesto Bazzaro due figure femminili che rappresentavano la Pace e l'Industria. Alle statue furono contestati l'incomprensibile significato allegorico, l'inutile "ruolo" decorativo e, soprattutto, un'eccessiva sensualità. Vennero pertanto rimosse e successivamente collocate a Villa Faccannoni (oggi Clinica Columbus). Se si esclude il "fattaccio" delle statue di Bazzaro, lo scalpore suscitato dal palazzo fu solo positivo e presto l'edificio assurse a modello del Modernismo lombardo, per il lusso prepotente con cui dava voce alla volontà autocelebrativa della ricca borghesia. Agli occhi dei contemporanei risultò subito chiara la componente moderna di novità: l'edificio non solo era stato progettato in tutti i particolari ed eseguito coerentemente (processo raro nei cantieri italiani), ma aveva anche visto numerose personalità artistiche attive sotto la direzione dell'architetto. Sommaruga aveva infatti creato un oggetto architettonico nuovo, caratterizzato da una grandiosa e da una complessa articolazione della spazialità interna, entro uno schema unitario e coerente che prevedeva una decorazione in ogni sua parte, in cui elementi interni ed esterni costituivano un unicum ornamentale senza sosta. Per ciò che riguarda la struttura architettonica, invece, Sommaruga rimase ancorato alla tradizione, evocando la monumentalità di una residenza rinascimentale, il trattamento plastico della decorazione barocca e la funzionale organizzazione degli interni settecenteschi con mobili realizzati "su misura" (commissionati a Eugenio Quarti). Sorse così un edificio dalla struttura massiccia, resa tale soprattutto dal bugnato rustico alla base, ma alleggerita dalle finestre a oblò del piano terreno. La decorazione scultorea e i ferri battuti in facciata contribuiscono a rendere maestosa la struttura esterna e sono preludio alla ricca ornamentazione degli ambienti interni. Lo scalone d'onore, con carnosi putti svolazzanti e una fastosa balaustra in ferro battuto, accoglie ancora oggi il visitatore del palazzo, introducendolo tra la più ricca ed emozionante decorazione Liberty.
Milano, Corso Magenta 96
Tra il 1905 e il 1906 Antonio Tagliaferri lavorò per una famiglia d'origine valdostana, i Laugier, costruendo loro un palazzo nel centro di Milano. L'edificio, a chi oggi passeggia lungo Corso Magenta, appare come un'imponente mole architettonica che cerca "leggerezza" tra le innumerevoli decorazioni. L'apparato ornamentale, infatti, risolve le facciate esterne nel contrasto cromatico tra il mattone rosso, i cementi decorativi, le ceramiche dipinte con motivi floreali e i ferri «asciutti e lineari in coerenza con il gusto che domina l'insieme». La plasticità è limitata ad alcuni intrecci dei ferri dei balconi e alle teste leonine in cemento sulla fascia marcapiano, che enfatizzano dall'esterno il piano nobile dell'abitazione. Importanza notevole a questo edificio non spetta solamente alle partiture decorative, ma anche alla presenza al piano terreno d'angolo tra corso Magenta e via Boccaccio della Farmacia Santa Teresa. La farmacia, infatti, è un esempio straordinariamente conservato di negozio liberty i cui arredi originali, disegnati e prodotti attorno al 1910 dalla ditta specializzata Botticelli su ispirazione di modelli secessionisti, sono ancora in uso. Le ampie decorazioni stilizzate degli arredi risolvono in chiave grafica e astratta il linguaggio floreale di impostazione Liberty, offrendo anche al cliente di oggi, l'opportunità di vivere tra arredamento e decorazioni, l'atmosfera modernista del secolo scorso.
Primo luglio 1931: Milano inaugura la Stazione Centrale. La conclusione dei lavori della nuova stazione era stato un "evento" per la città, che aspettava questa struttura moderna e funzionale da quasi un trentennio. Il primo concorso per il progetto di una struttura che andasse a sostituire la precedente stazione centrale (situata in corrispondenza dell'attuale piazza della Repubblica) era stato bandito nel 1906, dopo la posa della prima pietra a opera del Re Vittorio Emanuele III e durante le celebrazioni dell'Esposizione Internazionale di Milano, dedicata ai trasporti.
Nessuna proposta fu approvata e passarono più di quattro anni prima che fosse bandito un secondo concorso, che questa volta trovò un vincitore, l'architetto-ingegnere Ulisse Stacchini, con il progetto intitolato In motu vita e creato sul modello dell'Union Station di Washington.
Prima di vedere l'avvio dei lavori, Stacchini fu chiamato a modificare il progetto tre volte, avendo anche occasione di realizzare un'importante variante, cioè la realizzazione delle grandi coperture a tettoia, caratteristica principale della stazione: nell'agosto del 1924 fu approvato il progetto definitivo e nel dicembre dello stesso anno partirono i lavori che terminarono nel 1931 trasformando la stazione nelle forme attuali.
Ulisse Stacchini realizzò un'imponente struttura in cui elementi architettonici improntati a una grandiosità antica e legati a reminiscenze orientaleggianti erano uniti alla razionalità e al decorativismo Liberty.
La facciata è larga 200 metri e la volta è alta 72: dimensioni record per l'epoca; ma l'imponente monumentalità viene smorzata da una decorazione ricca ed eterogenea, il cui stile viene talvolta definito "assiro-milanese". L'attributo assiro indica la forte presenza di elementi orientali tra gli ornamenti; quello milanese, invece, è un ovvio riferimento alla città.
I grandi ambienti pubblici della stazione (galleria di testa, Biglietteria centrale e Galleria delle Carrozze) dipendono direttamente dall'architettura monumentale romana; gli elementi e i motivi utilizzati per la decorazione della Stazione, sia in facciata sia negli ambienti interni, sono desunti da stili ed epoche diverse.
Fregi, pannelli con simboli zodiacali, statue, protomi leonini, erme e ogni genere di ornamento accolgono i viaggiatori alla Stazione Centrale di Milano.
Toscano d'origine, romano di formazione, Ulisse Stacchini elesse Milano a residenza privilegiata della propria attività. Qui dagli ultimi anni dell'Ottocento realizzò un folto numero di abitazioni per l'aristocrazia e per l'élite imprenditoriale, importando nel capoluogo lombardo un gusto modernista di impronta viennese: geometrie compatte, forme solide definite da ornamenti concordanti e paralleli. Questi elementi si manifestarono subito in strutture a carattere "sociale", come il Caffè-Ristorante Savini (oggi scomparso) e nelle abitazioni costruite per committenti ricchi ed esigenti, che assorbirono l'attività di Stacchini nel primo decennio del Novecento. Furono gli anni di Casa Donzelli, di Casa Cambiaghi, di Casa Apostolo e della seconda Casa Donzelli e in numerose altre commissioni anche fuori Milano, come la Villa Magnani a Induno Olona, nel varesotto. Stacchini fu impegnato anche nell'architettura funeraria, come l'Edicola Beaux e l'Edicola Pinardi al Cimitero Monumentale di Milano.
Il successo "vero" di Stacchini arrivò però solo nel 1912, quando il suo progetto vinse il concorso per la Stazione Centrale di Milano, realizzata tra il 1925 e il 1931.
Nel 1915 l'architetto-ingegnere fu chiamato a insegnare architettura al Politecnico di Milano; da questo momento l'insegnamento cominciò ad avere un ruolo predominante nella sua carriera, tanto che dopo la Grande Guerra abbandonò quasi del tutto l'attività professionale.
"Quasi" del tutto perché tra il 1925 e il 1926 fu impegnato nei lavori per lo Stadio Meazza di Milano.
Appena laureatosi in Ingegneria Civile al Politecnico di Milano nel 1894 costituisce con Carlo Clerici la "Clerici e Conti", una società in accomandita per la distribuzione dell'energia elettrica a Milano che viene acquistata dopo pochi mesi dalla Edison per 81.000 lire. Sarà la prima di una serie di imprese di questo tipo, che distingueranno un impegno durato oltre mezzo secolo, rivolto alla nascente industria elettrica e dedicato al suo sviluppo. Nel 1901 fonda la Società per Imprese Elettriche Conti, che dirige fino al 1926: si tratta della prima impresa in Italia a realizzare trasporti di energia elettrica a grandi distanze, ad utilizzare grandi cadute d'acqua e ad attuare lo sfruttamento completo di un bacino. Nel 1905 il pioniere dell'elettricità è impegnato in Val d'Ossola dove con l'architetto Piero Portaluppi, realizza alcuni impianti idroelettrici, attivi dal 1909.
Figlio di un ingegnere edile, Piero Portaluppi studiò al Politecnico di Milano, dove si laureò nel 1910. Sull'esempio dei maestri Camillo Boito e di Gaetano Moretti si dedicò sia all'insegnamento accademico sia al "lavoro sul campo". Gran parte della sua attività di progettista si concentrò su centrali idroelettriche: principale committente di queste imprese edilizie fu l'ingegnere Ettore Conti, che si avvalse dell'«abile ingegno» di Portaluppi soprattutto nella realizzazione di centrali in Val d'Ossola, tra il 1910 e il 1930. Di queste la più celebre è sicuramente la prima, la Centrale Idroelettrica di Verampio, un edificio ricco di decorazioni geometriche, con rivestimenti bugnati in pietra locale, che al suo interno ospitava tecnologie elettriche all'avanguardia. Lavorando con Ettore Conti, l'estro eclettico e al contempo tradizionale di Portaluppi ebbe però modo di manifestarsi non solo nei progetti di centrali idroelettriche, ma anche nel restauro (si pensi alla Casa Atellani, in corso Magenta e alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, entrambe a Milano), nell'architettura funeraria (esempio celebre è l'Edicola Conti-Sayno al Cimitero Monumentale di Milano) e nella sistemazione di ville suburbane.
Milano, corso Magenta 65-67
Nel 1919 Ettore Conti, su suggerimento di Piero Portaluppi, acquistò un'antica casa rinascimentale. Affidò a Portaluppi i restauri dell'abitazione, su cui era intervenuto nel secolo precedente l'architetto Domenico Aspari (1823). Conti ne affidò il restauro a Portaluppi, che restituì all'edificio l'aspetto quattrocentesco, mettendo in evidenza le tracce d'epoca superstiti. Nonostante la forte presenza di elementi antichi sia originali, sia ricostruiti, ricordi decorativi contemporanei non mancano, soprattutto nei ferri battuti del cancello. Le soluzioni più diversificate e originali caratterizzano le decorazioni interne: si passa dalle boiseries di stile seicentesco ad arredi eclettici a specchi neo-settecenteschi a stucchi della cultura artistica degli anni Venti.
Milano, via Gioberti 1
Nel 1903, poco tempo dopo il suo arrivo a Milano, Ulisse Stacchini lavorò alla Casa Donzelli «una tra le prime e le più cospicue opere milanesi di carattere modernista». In questo edificio il linguaggio Art Nouveau delle decorazioni va a confondersi con una certa sobrietà di matrice secessionista, ma mantenendo intatto il sentimento arioso e lineare dell'architettura Liberty. è estremamente interessante notare come qui (fatto assai frequente nell'attività di Stacchini) l'architetto-ingegnere si preoccupi dell'intera struttura, progettando non solo le architetture a la disposizione degli spazi, ma anche le decorazioni. Cementi di un plasticismo morbido ed elegante, le ceramiche dal cromatismo forte ed efficace e i ferri battuti "in movimento": questi elementi ornamentali contribuiscono a rendere la casa un prezioso scrigno di ricchezze moderniste che ancora oggi, imboccando via Gioberti da via Saffi, si vede subito e stupisce. Stupisce per i colori, stupisce per i fiori e, soprattutto, stupisce per quel Liberty urlato a gran voce.
Milano, via Revere 7
Negli anni in cui lavora alla Stazione Centrale di Milano, Ulisse Stacchini era impegnato anche per l'impresa Donzelli, per la quale progettò un'abitazione. L'architetto, abbandonato il florealismo sottile dei primi anni di attività, in favore di una decorazione più severa «con robusti aggetti» sulla scia dei contemporanei esiti viennesi, reinventa una propria classicità, che rifiuta l'armonica composizione ottocentesca, a favore di motivi fantastici desunti dall'archeologia e dell'antico.
Dopo avere studiato all'Accademia di Brera e al Politecnico di Milano con Camillo Boito, il giovane architetto si contrappone presto all'eclettismo del maestro per intraprendere la via del Modern Style e affermarsi presto come uno degli artefici della declinazione italiana di questo stile, il Liberty. Nel 1890 vinse il Concorso internazionale di architettura a Torino: da quel momento ricevette numerosissime commissioni e altrettanti incarichi pubblici. è del 1901 il progetto del milanese Palazzo Castiglioni, l'edificio che fece di Sommaruga il "padre" del Modernismo italiano. Da questa data, infatti, l'intera attività dell'architetto è tutta qualificabile come Liberty; lo dimostrano altre abitazioni realizzate a Milano, come lo scomparso Villino Comi, la Villa Faccanoni (oggi Clinica Columbus). La produzione di Sommaruga fu però attuata prevalentemente fuori Milano e comprende ville e palazzi (Villa Poletti e Villa Cirla a Lanzo d'Intelvi, a Varese e a Campo dei Fiori), alberghi lussuosi e "moderni", monumenti funebri e vari edifici di destinazione pubblica.
è da sottolineare come all'interno di una produzione così ampia ma limitata nel tempo (27 anni di attività) Sommaruga sia stato l'unico degli architetti italiani di questa stagione a creare uno stile proprio e personale, vigorosamente plastico ma interessato anche a criteri di funzionalità.
Architetto di formazione "pittorica" (studiò all'Accademia di Brera), dal 1889 lavorò per il suocero, l'imprenditore edile Pietro Gadda, con il quale realizzò numerose case del centro di Milano. La sua opera fu caratterizzata da una continua ricerca di spazialità assoluta, costruita su partiture architettoniche semplicissime affiancate da una decorazione ricca ed esuberante, di marcata ascendenza Liberty. Dell'Art Nouveau, Bossi dava una doppia interpretazione: da una parte si fece fautore di un decorativismo estremo, con il quale rivestiva le sue architetture di ornamenti e figure dalla spiccata ricchezza cromatica (Casa Galimberti). Dall'altra parte, invece, operò una netta rinuncia alla policromia, per affidarsi a un plasticismo decorativo di forte effetto chiaroscurale, ottenuto grazie all'utilizzo utilizzando differenti materiali (Casa Guazzoni).
L'attenzione e la cura particolari che riservava a ogni suo progetto, sono testimoniati dai lavori di Casa Alessio e Casa Bossi, in zona Manforte che insieme la Padiglione della Pace, per l'Esposizione Internazionale di Trasporti e Belle Arti di Milano del 1906, costituiscono il momento più importante della sua attività.
Diplomatosi in architettura all'Accademia di Brera nel 1896, Alfredo Campanini alterna la progettazione alla conservazione e al restauro.
L'architetto si distingue presto per lo spiccato gusto modernista, a tratti unito a elementi di matrice neo-medievale, legata all'attività di restauro.
Celebre è Casa Campanini la dimora che l'architetto costruì per sé nei primi anni del Novecento, dando prova di una progettazione totale, che comprende sia l'architettura, sia le decorazioni nell'adesione piena ad un linguaggio dichiaratamente Liberty.
Allievo di Luca Beltrami con il quale si diploma in Disegno architettonico nel 1883 all'Accademia di Belle Arti di Brera, divide la sua attività tra la "pratica" sul campo, il restauro (celebre è la ricostruzione «com'era dov'era» del Campanile di San Marco a Venezia) e l'insegnamento accademico. è, infatti, professore a Brera e al Politecnico (di cui progetta la sede in piazza Leonardo da Vinci nel 1912-1927 e fu il primo preside della facoltà di Architettura nel 1934). La sua adesione al Liberty non è mai costante, perché nei centri urbani spesso preferisce alternare elementi modernisti ad altri di impronta neogotica.
Nei suoi progetti di case spesso manca lo stile floreale, anche se si deve a lui Sala da pranzo che la Ditta Ceruti, in mostra alla Prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino nel 1902: qui lo "Stile Floreale" è il protagonista assoluto dell'intero mobilio, che fa riscoprire all'architetto alle proprie origini (una famiglia di ebanisti). Quattro anni dopo Moretti partecipa a una seconda manifestazione, cioè all'Esposizione Internazionale di Milano, curando l'allestimento interno delle Gallerie di Architettura e di Arti Decorative.
Fuori Milano realizza strutture dalla solida monumentalità secessionista, come il Cimitero di Crespi d'Adda la Centrale idroelettrica di Trezzo d'Adda; quest'ultima immediatamente celebrata dai contemporanei per l'avanguardia delle tecnologie, in perfetta simbiosi con l'architettura e con la natura circostante, è in funzione ancora oggi.
A Milano, invece, costruisce case di «una sobrietà estrema» che trovano forti legami con la più sintetica e rigorosa architettura tedesca contemporanea. Esempi del rigore progettuale che Moretti applica sono la propria abitazione, Casa Moretti, al numero 15 di viale Majno, e l'Edicola Gaetano Casati, nel Cimitero Monumentale di Milano.
Lodigiano, nato in una famiglia di commercianti di ferro, Alessandro Mazzucotelli si trasferì giovanissimo a Milano, dove con il fratello Carlo fece l'apprendista presso la bottega di un fabbro. Nel 1891, rilevata la bottega, diede il via alla propria attività "artistica", diventando presto uno dei «protagonisti delle imprese architettonico-decorative della Milano modernista, per la quale elaborò un rigoglioso repertorio fitomorfo e zoomorfo, solo a tratti esplicitamente naturalistico, ma nella sostanza astrattizzante». Con Mazzucotelli il ferro artistico della tradizione italiana ebbe il suo momento di rinascita. Già alla prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino i suoi lavori cominciarono ad avere un notevole successo, ma fu quattro anni dopo, nel 1906, all'Esposizione Internazionale di Milano che l'artista si fece conoscere a livello internazionale: il monumentale Cancello dei gladioli riscosse un successo senza precedenti.
Dal 1903 Mazzucotelli intraprese anche la carriera accademica, insegnando prima alla Società Umanitaria e successivamente nel ruolo di direttore della Scuola Superiore di Arti Applicate ISIA di Monza. In questi anni, inoltre, instaurò una stretta collaborazione con i più importanti architetti, per i quali realizzò numerosi ferri decorativi per ville e alberghi. Celebri sono i ferri realizzati da Mazzucotelli per alcuni edifici di Giuseppe Sommaruga (Palazzo Castiglioni e alla Villa Romeo, oggi Clinica Columbus, a Milano, il Grand Hôtel Campo dei Fiori e il Ristorante Belvedere a Varese), di Alfredo Campanini (Casa Campanini a Milano) e di Giovanni Battista Bossi (Casa Guazzoni, a Milano).
Nonostante la sua specialità fosse il ferro battuto, eseguì anche disegni per i gioielli della ditta Calderoni e per i tessuti delle tessiture di Brembate, portando nell'oreficeria e nelle stoffe i moti fluttuanti e sinuosi del suo ferro battuto.
Originario di Bergamo, dopo un apprendistato di quattro anni a Parigi, si trasferisce a Milano dove per breve tempo fa pratica nel laboratorio di Carlo Bugatti prima di avviare una bottega in proprio, aprendo un laboratorio in via Donizetti. Tra il 1894 e il 1900 partecipa a varie esposizioni, ottenendo numerosi successi ed entrando a far parte di un ampio universo artistico.
Nel 1902 partecipa alla Prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino, presentando quattro sale: qui, per la prima volta, si dedica alla progettazione dell'intero ambiente, occupandosi di ogni dettaglio (perfino carte da parati e tappeti). Quarti, inoltre, mostra di sapere realizzare mobili dalle linee sobrie e semplici, dal costo ridotto e adatti a una vasta clientela.
L'ebanista è presente anche all'Esposizione Internazionale di Milano, dove fa parte della giuria della sezione di Arte Decorativa e dove presenta alcune stanze per le quali riscuote un successo enorme (arrivando a vincere anche il Gran Premio Reale internazionale).
A Milano l' "orafo del legno" realizza degli ambienti conformi al gusto e alle esigenze borghesi, mostrando tutta la propria abilità imprenditoriale: Bugatti, infatti, è tra i primi artisti a conciliare le qualità dell'artigianato con le possibilità dell'industria.
Egli, inoltre, nel corso degli anni affianca all'insegnamento presso la Società Umanitaria un'intensa attività progettuale di arredi per grandi edifici, come Palazzo Castiglioni a Milano, o ambienti pubblici, come il Grand Hôtel e il Casino di San Pellegrino Terme.
Il percorso artistico di uno dei più celebri protagonisti dell'ebanisteria cominciò nel 1875 all'Accademia di Brera si completò nell'ultimo decennio dell'Ottocento all'Ecole des Beaux Arts di Parigi. Due laboratori, uno a Milano e uno nella capitale francese, furono le prime palestre di un'arte incredibile, destinata a un travolgente successo, ma anche a dure critiche.
Bugatti, infatti, nonostante i numerosi premi che vinse all'Esposizione italiana di Londra (1888), a quella internazionale di Parigi (1900) e alla della prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino; in Italia non trovò mai un pubblico pronto ad acquistare i suoi mobili forse per una certa difficoltà ad apprezzare fino in fondo la modernità e la creatività di mobili in legno pregiatissimo, arricchiti da avorio, rame, madreperla, pergamena pelle di cammello e di daino; si trattava di strutture complesse e articolate, spesso a metà tra il decorativismo fitomorfo liberty e l'enfasi neo-barocca in cui la scelta di realizzare un oggetto/opera d'arte andava a scapito della stessa funzione dell'oggetto.
All'esposizione torinese del 1902 la Ditta Bugatti espose quattro camere complete; qui furono presentati i cosiddetti «mobili a chiocciola» con andamento aspirale e una forte inclinazione a un gusto naturalistico iperbolico. Questi originalissimi mobili-scultura rimasero invenduti. L'ebanista per la delusione lasciò il testimone a un collaboratore e si trasferì in Francia dove alla solita produzione di mobili, affiancò la scultura di piccoli oggetti in bronzo, campo nel quale ottenne un discreto successo, senza però far mai ritorno in Italia.
Nel panorama della produzione di tipo industriale si distingue quella dell'ebanista Carlo Zen, negli anni Settanta del XIX titolare della ditta Zara e Zen, dove si realizzano mobili in stile accostando elementi di gusto rococò a primi accenni modernisti: un arredamento eclettico destinato a un pubblico medio borghese.
La fine dell'Ottocento lo vede realizzare alcuni mobili improntati alla moda e al gusto del Modern Style, che nel giro di pochissimi anni lo vedono avviare con successo pressoché tutta la produzione verso il liberty. Nel 1902 Zen è alla prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino, dove presenta una serie di ambienti di interessante impronta modernista, con mobili costruiti su linee incurvate e ricche decorazioni, ma senza tuttavia riuscire ad ottenere un convincente equilibrio.
Se la critica non apprezza la produzione di Zen, il pubblico d'élite la adora e ne fa continua richiesta. Viene così avviata una produzione di pezzi unici (mobili e arredi per interi e ambienti) che rispondono al prezioso decorativismo Art Nouveau.
Nel 1905 la ditta cambia la ragione sociale in Fabbrica Italiana Mobili Carlo Zen, acquista una nuova sede in via Bixio a Milano con più di 120 falegnami; qui un reparto è destinato alla realizzazione del solo arredo moderno ed è diretto dai fratelli Schirollo, pionieri del design industriale moderno.
In questi anni, inoltre, Carlo Zen ricorre alla collaborazione di architetti e artisti di avanguardia; sodalizi celebri sono quelli con l'architetto Giuseppe Sommaruga, con il ceramista e decoratore fiorentino Galileo Chini e il maestro dell'arte del ferro battuto Alessandro Mazzucotelli.
Ormai diventata una grande "industria" nel secondo decennio del Novecento viene dato spazio anche alla produzione di un mobilio più sobrio, coprendo ormai tutte le esigenze di un mercato sempre più vasto ed esigente.
Nel 1896 la Società Ceramica Richard si fonde con la Manifattura Ginori: due prestigiose e ormai "storiche" aziende unite per creare porcellane e ceramiche di incredibile qualità ed eleganza.
La nuova società conquista con rapidità i massimi riconoscimenti a tutte le esposizioni in cui si presenta, mostrando prodotti in porcellana aggiornati sui più moderni motivi modernisti. Nel 1902 alla prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino l'azienda presentò una serie di prodotti in stile liberty: vasi, calamai, vassoi e lampade arricchiti da sensuali figure femminili dalle forme allungate, alcune realizzate su disegno di Leonardo Bistolfi. La Richard-Ginori sarà presente anche all'Esposizione Internazionale di Milano con i pannelli naturalistici realizzati per l'Acquario Civico Milanese, disegnati da Sebastiano Locati.
La grande capacità della Richard-Ginori di adattarsi alle nuove istanze di mode e tendenze ne fece negli anni successivi al fortunato esordio un marchio capace di una grande diffusione a livello internazionale.
Dopo avere studiato all'Istituto Tecnico di Torino, il sedicenne Leonardo Bistolfi con una borsa di studio finanziata dal suo Comune, Casale Monferrato, frequenta l'Accademia di Belle Arti di Brera. Giovanissimo, pertanto, inizia a distinguersi per una incredibile abilità nell'arte della scultura (creta, cera, intaglio del legno), supportata da una creatività geniale. Lasciata Milano, nel 1880 è di nuovo in Piemonte, dove nel giro di un anno si affermava come il massimo esponente nella scultura di ambito cimiteriale, realizzando vere e proprie «meditazioni simboliche». La scultura di Bistolfi è dichiaratamente modernista soprattutto per il plasticismo naturalista che la contraddistingue; egli nel 1902 fonda la rivista «L'Arte Decorativa Moderna» che svolge una parte attiva nell'organizzazione della Prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino, per la quale realizza il Cartellone della Prima Esposizione internazionale d'Arte decorativa e moderna.
Anche in Lombardia Bistolfi realizza numerose opere di carattere funerario, incentrate sulla rappresentazione onirica del passaggio estremo, opere nelle quali il decorativismo Liberty è evidente nei panneggi abbondanti che quasi si confondono con corpi flessuosi ed elementi vegetali.
Oggi i vialetti del Cimitero Monumentale di Milano, può portarci ad ammirare la celebre statua de Il Sogno, sulla Tomba Cairati Vogt, l'Edicola Toscanini e il Monumento Biasini.
L'abile manipolazione della materia ne Il Sogno e la lucida interpretazione del marmo di Carrara nel sepolcro del figlio del compositore sono la sintesi di una carriera artistica e di un'evoluzione stilistica riassumendo i cambiamenti di un'epoca di passaggio dal prorompente decorativismo Liberty a un'interpretazione più sobria del modernismo, preludio dell'Art Deco.
Fondata nel 1900 da Bertoni, Sprangher e altri soci, la nuova azienda produttrice di ceramica, fu da subito caratterizzata per l'utilizzo di macchine all'avanguardia, frutto delle tecnologie produttive più avanzate, e da un cospicuo numero di dipendenti (oltre 400).
La società produceva imitazioni di porcellane cinesi, piccole sculture e riproduzioni delle maioliche settecentesche. La produzione, che utilizzava come logo un elefante, comprendeva anche stoviglie, articoli sanitari e stufe, ma era specializzata soprattutto nella realizzazione di piastrelle.
Negli anni della Belle Époque la Sprangher & C. produsse decorazioni ceramiche in stile liberty per le facciate di numerosi palazzi milanesi, tra le quali spiccano i colori sgargianti dei motivi floreali delle piastrelle di Casa Galimberti.
Diplomatosi in pittura all'Accademia di Belle Arti di Brera, Giovanni Beltrami agli inizi della carriera si dedicò alla critica d'arte, manifestando però un forte interesse per le tecniche della pittura su vetro. Con i compagni di studi Guido Zuccaro, Innocente Catinotti e Giovanni Buffa fondò nel 1900 la manifattura Vetrate Artistiche G. Beltrami & C., inizialmente orientata verso una produzione vasta (mosaici, manifesti, mobili, oltre ai vetri), specializzandosi in un secondo momento in vetrate artistiche. Nel giro di pochi anni la ditta diventò la principale manifattura italiana in questi settori dell'epoca.
Le vetrate sono caratterizzate da un'incredibile capacità tecnica, supportata da una notevole creatività, anche se lo stile dei primi anni di attività fu improntato a soluzioni decorative in linea con la tradizione rinascimentale italiana. Questi elementi, però, non impedirono alla Ditta Beltrami di riscuotere un successo enorme alla prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino (1902), dove ottenne il diploma d'onore all'unanimità per la vetrata Visione.
Il confronto con i massimi esponenti internazionali dell'arte vetraia indusse la Ditta Beltrami ad aggiornarsi sugli stili e le correnti artistiche del momento: gli elementi modernisti a latere del disegno "quattrocentesco" delle vetrate d'inizio Secolo pian piano divennero predominanti. Così nelle opere realizzate per il Padiglione delle Arti Decorative dell'Esposizione Internazionale di Milano (1906) gli elementi naturalistici furono resi attraverso forme semplificate e tinte brillanti che ne accentuavano il dato puramente decorativo.
La fortuna della manifattura proseguì ininterrotta fino al 1926, alla morte del suo socio fondatore. Dopo questa data la produzione diminuì, limitata quasi solamente alla vetrate per il Domo di Milano, fino a esaurirsi definitivamente nel 1932.
è negli ultimi anni dell'Ottocento che la vetro d'arte conquista una propria autonomia rispetto ai modelli antichi e diventa uno dei mezzi più efficaci per la diffusione dell'Art Nouveau. Nel 1899 viene aperta la Ditta Luigi Fontana, poi FontanaArte, rappresentante in Italia dell'inglese Cloisonné Artistica Glass.
La Ditta è presente alla prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino e quattro anni dopo all'Esposizione Internazionale di Milano; in entrambe le occasioni, esponendo vetri dalla spiccata matrice modernista, con decorazioni definite da linee sinuose e cromie brillanti.
Queste qualità valsero alla Luigi Fontana commissioni importanti, tra le quali è degno di nota il lavoro realizzato nel 1907 insieme a Giovanni Beltrami: le due ditte su disegno di Giovani Buffa realizzarono gli arredi del casinò di San Pellegrino Terme.
Nato a San Pietroburgo cresce a Vienna, dove forma la sua arte all'Accademia, manifestando una forte inclinazione per la pittura. Questa propensione lo porta nel 1879, quando si trasferisce a Milano, a lavorare al Teatro alla Scala come costumista e scenografo. Lì incontra l'editore musicale Giulio Ricordi, con il quale collabora dal 1889, occupandosi sia della parte grafica (cartelloni per il teatro, manifesti pubblicitari, cartoline, copertine di sparititi e di libretti), sia la parte teatrale (scenografia e costumi teatrali) di numerose opere e spettacoli. La sua arte è caratterizzata da una grafica precisa ed elegante, da una cromia forte e dai toni decisi; spesso, inoltre, è arricchita da una linea affusolata e sinuosa direttamente modellata sul contemporaneo stile Liberty.
L'ingresso nelle Officine Grafiche Ricordi lo inserisce tra i pionieri della pubblicità: Hohenstein svolge l'attività di un moderno "art director", coordinando la promozione editoriale delle produzioni musicali e realizzando numerosissimi manifesti pubblicitari.
Sul suo esempio si muoveranno allievi e colleghi, tra i primi pubblicitari del Novecento. Degni di nota sono Leopoldo Metlicovitz e Marcello Dudovich che insieme ad Hohenstein hanno contribuito a scrivere la nascita della storia della pubblicità.
Apprendista in una tipografia di Udine, il quattordicenne Leopoldo Metlicovitz viene "notato" da Giulio Ricordi, titolare delle omonime Officine Grafiche, che gli offre un lavoro a Milano come aiuto litografo. Tra le pareti dei laboratori delle Officine Grafiche Ricordi può formarsi guardando alla grafica di Adolph Hohenstein e impostando la propria sul medesimo «gusto fitomorfo delle illustrazioni». Nel 1891 diventa direttore tecnico della Ricordi e contemporaneamente si inserisce nel mondo del teatro iniziando la carriera di scenografo e costumista alla Scala. Diventa amico di Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini, frequenta i locali mondani, viaggia in Inghilterra, in Germania, a Parigi. La sartoria Mele di Napoli affida a Metlicovitz l'incarico di pubblicizzare i suoi prodotti, mentre lui comincia a collaborare anche per le prime case cinematografiche italiane (manifesto per il film Cabiria, kolossal del muto sceneggiato da Gabriele D'Annunzio) e nel 1906 vince il concorso per il manifesto dell'Esposizione Internazionale di Milano.
Sfruttando la mitologia classica e le allegorie, l'artista rappresenta Mercurio e la Scienza che dalle tenebre marciano verso la luce del progresso alla guida di un loco motore: il manifesto interpreta splendidamente il messaggio dell'esposizione milanese: celebrazione degli sviluppi tecnologici nel settore dei trasporti. In questi anni Metlicovitz matura uno stile "versatile", conforme alle esigenze del soggetto, ricorrendo talvolta a un'enfasi di matrice classicista e altre a un linearismo tutto Liberty. E questo senza andare «a discapito delle esigenze pubblicitarie che furono sempre soddisfatte, e tutte le sue creazioni, dal punto di vista estetico, furono altamente funzionali e soddisfacenti».
Dopo una prima formazione a Trieste il giovane pittore Marcello Dudovich nel 1897 si trasferisce a Milano. Qui viene assunto come "cromista" (litografo) dalle Officine Grafiche Ricordi, grazie all'amicizia del padre con il famoso cartellonista Leopoldo Metlicovitz, e viene incaricato di disegnare sulla pietra litografica le creazioni di Metlicovitz, Hohenstein e altri. è al contempo impegnato nello studio del disegno accademico e del nudo, anche se la sua inclinazione vera è rivolta alla creazione di bozzetti e manifesti.
In virtù della suo eccezionale talento, la pubblicità, il principale tra i nuovi mezzi di comunicazione, si accorge subito di lui. è del 1899 il trasferimento a Bologna, dove viene chiamato a lavorare dal tipografo Edmondo Chappuis. Qui Dudovich inizia a produrre cartelloni pubblicitari e, in seguito, copertine, illustrazioni e schizzi per varie riviste: «un'intensa attività grafica con opere caratterizzate da uno stile elegante e agile; composizioni Liberty».
Dal 1900 per tre anni consecutivi l'artista vince il concorso per il cartellone della Festa della Primavera di Bologna. Questo successo lo porta all'Esposizione Universale di Parigi (1900) e alla Prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino, dove espone alcuni manifesti. Dal 1906 il "pubblicitario" è di nuovo a Milano, perché la città possedeva «un'atmosfera artistica più viva e stimolante», come lui stesso scriveva in una lettera alla famiglia; qui, tornato a lavorare con Officine Grafiche Ricordi, realizza le decorazioni interne del padiglione italiano dell'Esposizione Internazionale di Milano.
La collaborazione con Ricordi lo portetò a creare capolavori della grafica, capisaldi della pubblicità moderna, della quale Dudovich può essere considerato uno dei padri. Celebre è in tal senso il manifesto che nel 1911 vince il concorso del "Borsalino Zenit": campiture dai toni squillanti, ambientazione sobria e un cappello come protagonista. Semplice ed efficace allo stesso tempo.
Gli anni della Grande Guerra e la crisi economica successiva provocano una drastica riduzione degli incarichi a Dudovich, che da quel momento si dedicò anche a locandine, illustrazione per riviste, pittura e decorazione, mantenendo intatti la sua creatività e il suo elegante segno grafico.
Giovanissimo, Luca Comerio riesce a farsi assumere come assistente nello studio di Belisario Croci, un pittore pioniere della nuova arte fotografica. Nel 1894 acquista una macchina fotografica a cassetta, si mette in proprio; il suo primo lavoro è quello che al giorno d'oggi si definirebbe "scoop": riesce a scattare di nascosto alcune fotografie a re Umberto I, in visita a Como. Stampa poi una gigantografia di 2,5 m che invia al sovrano, il quale gliene ordina altre cinque copie.
Negli stessi anni in cui Comerio si sta affermando come fotografo, la fotografia inizia a scoprire altre qualità oltre quelle estetiche, la si utilizza come strumento per fissare e mostrare i fatti. E Comerio è tra i primi capaci di sfruttare queste possibilità, mostrandosi abilissimo nel muoversi tra la folla e nel documentare. I tumulti che scoppiano a Milano nel 1898 sono tra le prime prove che Comerio affronta, realizzando fotografie "in diretta" tra le barricate. Parte del suo servizio viene pubblicato su «L'Illustrazione Italiana» facendone uno tra i fondatori del fotogiornalismo europeo. Mentre ottiene grandi successi come fotografo, Comerio si avvicina sempre più al cinema, del quale intuisce l'importanza: si tratta di un mezzo di informazione più suggestivo e più potente della fotografia. Nel 1907 con la somma vinta a un concorso, acquista una modernissima cinepresa, con la quale documenta una crociera nel Mediterraneo intrapresa dal re Vittorio Emanuele III: il successo è tale che viene nominato fotografo della Real Casa. Lo stesso anno fonda la propria casa cinematografica, la Comerio-Films, con la quale realizza film di ogni genere.
L'azienda accumula successo rapidamente, tanto che Comerio si vede costretto a trasferirne la sede due volte e poi ad ampliarla, fondando la Milano-Films: nel 1909 costruisce entro un'area di 22.000 mq uno stabilimento cinematografico che comprende il più grande e attrezzato studio di posa del mondo. L'anno successivo, però, il fotografo-regista, rifonda la Comerio-Films, realizzando un documentario sul primo giro d'Italia e la prima ripresa aerea (facendosi legare con la cinepresa a un aereo). Egli, inoltre, durante la Grande Guerra, fu, fino al 1917, l'unico cineoperatore civile autorizzato a riprendere le battaglie. Nonostante i divieti, nel 1918 filmò l'entrata dei cavalleggeri a Trento e l'attimo in cui il vessillo tricolore viene alzato nella città.
Nel 1922 anche la Comerio-Films si sciolse e lo stesso Comerio ritornò a dedicarsi alla fotografia, anche se negli anni Trenta sperimentò le novità del sonoro con alcuni cortometraggi. Lentamente, però, la sua figura sparì dal panorama cinematografico e quando morì, nel 1940, era stato oramai dimenticato da quel mondo che lui aveva contribuito a creare.
Dopo essere stata prima attrice nella compagnia teatrale di Ermete Novelli, Ginevra Francesca Rusconi viene scritturata dalla Milano-Films per interpretare Verso l'arcobaleno (1916). Il successo presso critica e pubblico fu immediato: il suo viso pallido e spigoloso contribuì ad introdurre in Italia un nuovo canone di bellezza femminile e "moderna" e la leggenda vuole che proprio grazie a questo successo Guglielmo Marconi coniò per lei il nome d'arte di Elettra Raggio.
La sua modernità si manifestava anche in una creatività brillante e in un'incredibile spirito di iniziativa: pioniera dell'industria del cinema, scrisse soggetti e sceneggiature per la Milano-Films e nel 1916 fondò la propria casa di produzione la Raggio-Film. Qui la Ruscone ricoprì i ruoli di arista, sceneggiatrice e regista, guadagnandosi la definizione di «audace amazzone dell'arte cinematografica».
Nel 1907 i più importanti quotidiani e le riviste più quotate avevano individuato la «ideatrice della moda italiana» nella première Rosa Genoni.
Nata in provincia di Sondrio, dopo un lungo apprendistato tra Milano, Nizza e Parigi, nel 1895 torna nel capoluogo lombardo, dove trova lavoro da H. Haardt et Fils, uno dei più celebri atelier italiani, del quale diventa direttrice nel 1903. Subito si ribella alla "tradizionale" copia di modelli francesi per l'elite aristocratica e altoborghese, promuovendo l'idea di abiti «in puro stile italiano».
Due anni dopo affianca all'attività sartoriale l'insegnamento presso la Scuola Professionale Femminile della Società Umanitaria di Milano, dove presto dirige la sezione della sartoria.
Pioniera del femminismo, Rosa Genoni è convinta che l'emancipazione femminile passi attraverso una migliore istruzione e, relativamente al suo campo, anche grazie alla semplificazione del guardaroba destinato alla donna che deve essere comodo e funzionale nel solco dell'imperante gusto Liberty.
All'Esposizione Internazionale di Milano del 1906 gli abiti disegnati dalla Genoni ottengono un enorme successo; i capi erano ispirati ad artisti del Rinascimento italiano e volevano dimostrare come il mondo della moda italiana potesse attingere da modelli nazionali: questa linea le valse la vittoria del Gran Premio della giuria per la sezione Arte Decorativa.
Studiando anche la scultura e proseguendo le ricerche sulla pittura antica, Rosa Genoni introduce ricami naturalistici tridimensionali nella decorazione degli abiti: una novità assoluta nel mondo della moda; nel 1908 promuove le sue novità attraverso il teatro, grazie all'aiuto dell'attrice Lyda Borelli che sul palco indossa alcune sue "rivisitazioni" dall'antico; l'anno successivo fonda il primo comitato promotore per una Moda di Pura Arte Italiana. Sono questi gli anni in cui il suo successo arriva al massimo, quando le sue creazioni raggiungono gli Stati Uniti.
Como, Brunate
L'ultimo decennio dell'Ottocento vide aumentare notevolmente il turismo sulle rive del Lario: tra le mete privilegiate c'erano le alture di Brunate, sopra Como. Diede il via a questo afflusso la costruzione di una funicolare nel 1894, che legava il paese a Como, e la realizzazione di un albergo di lusso, il Grand Hôtel, un edificio imponente, di cinque piani e quaranta stanze, con «una sfarzosa decorazione che incrosta la facciata già disseminata di balconi e balconcini in un pastiche di indefinibile stile» che si vedeva bene da Como e dalla riva opposta del lago.
Inaugurato nel 1893 l'hotel diventò subito una meta alla moda che si poteva raggiungere velocemente e con comodità, sfruttando la rete delle Ferrovie Nord Milano, la cui stazione Como-Laghi era a pochi metri da quella della funicolare che portava fino a Brunate. Nel giro di qualche decennio, però, la fama dell'albergo decadde, riducendosi a "succursale" del Grand Hôtel Milano, sempre a Brunate, del quale seguirà il lento e triste declino.
Como, Brunate
La realizzazione di una funicolare nel 1894 e la costruzione di ville e alberghi e pensioni tra la fine del XIX secolo e l'inizio del successivo incrementò sensibilmente a Brunate il numero di turisti in villeggiatura.
Per soddisfare le richieste di un pubblico esigente e raffinato fu costruito nel 1910 un nuovo albergo di lusso, Grand Hôtel Milano, che andava a "supportare" Grand Hôtel Brunate, costruito il ventennio precedente.
Fu chiamato l'ingegnere Achille Manfredini, che nel realizzò una struttura in cui la monumentale imponenza di matrice modernista era presente con forze, nonostante sull'inizio del secondo decennio del secolo il Liberty stesse prendendo una direzione più "eclettica" e meno floreale.
Como, Brunate, via Pirotta
Nel 1902 l'architetto comasco Federico Frigerio fu chiamato a progettare la villa dell'industriale cotoniero Attilio Pirotti. L'imprenditore volle anche il celebre decoratore Ludovico Pogliaghi e il pittore Ambrogio Alciati, affinché collaborassero con Frigerio alla realizzazione di un piccola "reggia" , uno scrigno di raffinatezze neo-settecentesche. Nel 1910 la casa fu conclusa e Brunate poté vantare la sua «piccola Versailles». Immersa nella natura con la quale a tratti si confonde, villa Pirotti è sintesi piacevole delle forme morbide e delle linee fluide del Modernismo, arricchite dal prezioso decorativismo di matrice neo-rococò, che quasi ne fanno una residenza in stile "Luigi XV". Inoltre, la commistione tra materiali, tecniche e forme, la valorizzazione delle arti tipiche della stagione del Liberty rendono la villa uno degli esempi più concreti di architettura modernista sul Lario.
Como, Brunate, via Roma 13
A Brunate si distingue lungo via Roma la Villa Cantalupi-Giuliani, piccolo gioiello di architettura "eclettica". Purtroppo non è noto l'autore del progetto, ma si può sicuramente individuare l'educazione modernista dell'architetto che vi lavorò attorno al 1910. Gli esterni, infatti, presentano le linee mosse e voluttuose, i fiori mossi e le forme plastiche tipiche del gusto Liberty. La pianta e l'alzato sono caratterizzati da una geometria precisa e regolare; questa rigidità viene però a scontrarsi con le delicate movenze degli ornamenti nel solco della tradizione Art Nouveau. E sono proprio questi ornamenti floreali a far sì che la natura circostante quasi si confonda con quella delle decorazioni, creando un'armonica simbiosi tra villa e natura.
Como, Lanzo d'Intelvi, via Poletti 11
L'architetto Giuseppe Sommaruga nel 1915 fu impegnato del progetto di Villa Poletti e Villa Cirla. Quest'ultima è un esempio splendido dell' "ultimo" Sommaruga, la cui opera è ancora legata allo spirito del Liberty, ma è già orientato verso i volumi e le strutture razionali del secondo decennio del Novencento. I ferri battuti di balconi e finestre sono costruiti sulla linea ondulata tipica dell'Art Nouveau e rappresentano un magnifico omaggio a quello "Stile Floreale" dai volumi indefinibili e mossi in sintonia con la natura circostante oramai al crepuscolo.
Como, Lanzo d'Intelvi, via Poletti 10-12
La villeggiatura tanto "in voga" a fine Ottocento sul Lago di Como portò, tra l'altro, alla "scoperta", quale luogo di residenza privilegiato, non solo e non più delle celebri rive ma anche di quelle alture da cui si poteva dominare il paesaggio come Lanzo Intelvi e Brunate che proprio in quegli anni venivano anche rese facilmente accessibili dalle funicolari. Questi luoghi furono così "invasi" da ville e villini che offrono al turista del XXI secolo un eccellente campionario Liberty.
Da sottolineare tra molte residenze due tra le ultime opere di Giuseppe Sommaruga; l'architetto nel 1915 progettò a Lanzo Villa Cirla e Villa Poletti; la seconda una struttura dalla solida monumentalità derivata su quella compatta organizzazione dei volumi che caratterizzava molta dell'architettura successiva al 1910; le decorazioni in facciata tradiscono, però, la matrice modernista dell'opera di Sommaruga, dedito in ogni progetto anche alla partitura ornamentale e non solo a quella architettonico-strutturale; i ferri battuti di Alessandro Mazzucotelli mostrano quel movimento fluido ed elegante che solo la vivace creatività di un architetto del calibro di Sommaruga poteva arrivare ad affiancare alla rigida linearità della costruzione.
Como, Lanzo d'Intelvi
Negli ultimi decenni dell'Ottocento l'afflusso di villeggianti sulle ville del Lario aumentò notevolmente; a ciò contribuì non solo la maggior velocità dei trasporti, ma anche il miglioramento dei servizi alberghieri, sempre più lussuosi e dotati di ogni agio.
Tra i centri che in questi anni divennero di "moda" per la villeggiatura d'élite va annoverata anche la cittadina Lanzo d'Intelvi, dove Mario Novi fece costruire il Grand Hôtel Belvedere, riuscendo «a far conoscere il gentil paese e la sua stupenda valle» a quell'aristocrazia e a quella ricca borghesia industriale che d'estate cercavano un po' di sollievo dall'arsura estiva della città. Doveva apparire maestoso, con i suoi tre blocchi dai tetti spioventi uniti da due corpi di minore grandezza e con un grande terrazzo che apriva lo sguardo sul Ceresio e sulle montagne di fronte.
Varese, Colle Campigli
Nel 1905 fu costituita la Società Anonima Varese-Kursaal con l'obiettivo di migliorare l'accoglienza alberghiera del Varesotto e «conquistare nuovi spazi al turismo residenziale d'élite e facilitare quello più popolare alla montagna» del Sacro Monte.
Fu così avviata la costruzione di un complesso turistico d'élite con un albergo, un ristorante, un teatro, sale da gioco riunite nel Kursaal e uno stand per la Società del tiro a volo.
All'architetto Gaetano Moretti fu affidata la realizzazione del Kursaal, che fu portato a termine nel 1909; Giuseppe Sommaruga, invece, si occupò del Teatro (1911) e del Palace Grand Hôtel (1912-1913). Il complesso fu inaugurato il 5 luglio del 1913 con ricevimenti ed eventi che ne sottolineavano il lusso e i confort più moderni. Al Kursaal di Gaetano Moretti si tentava la fortuna col gioco d'azzardo e si tirava al piattello, seguendo i ritmi delle musiche che si sentivano dal Teatro.
Per l'albergo Giuseppe Sommaruga progettò una struttura di rigida monumentalità; alla semplicità formale dell'architettura si contrappongono quattro differenti facciate, distinte nell'uso delle decorazioni e dei materiali utilizzati, tra cui il ferro battuto, qui lavorato da Alessandro Mazzucotelli.
I saloni erano carichi di cristalli e di decorazioni scintillanti, di stucchi preziosi e di splendide pitture; quello principale, dal lusso sfrenato, dava su uno spettacolare belvedere, che si apriva alle alpi e sul lago; nei marmi e nei ferri dello scalone si riassumeva il fasto decorativo dell'intera struttura. Da qui si saliva alle camere, arredate modernamente con «mobili chiari e solidi», erano raggiunte dall'acqua corrente (sia calda che fredda) ed erano dotate di un "apparecchio", cioè «un recipiente igienico [...] opportunamente mascherato da un apposito mobiletto».
Giuseppe Sommaruga, inoltre, si occupò della stazione di arrivo della funicolare, realizzando una struttura dall'elegante decorazione Liberty.
L'unico periodo in cui il Palace rimaneva chiuso era l'inverno; per il resto dell'anno il prestigioso albergo di Colle Campigli ospitava l'élite aristocratica e industriale italiana ed europea.
Dell'immensa e preziosa grandiosità delle costruzioni sul Colle Campigli, oggi ci rimane solo il Palace, recentemente ristrutturato. Il Kursaal e il Teatro, invece, furono bombardati e demoliti durante la Seconda Guerra Mondiale; le fotografie dell'epoca mostrano per il Kursaal una struttura a sistema centrale simile a quella delle stazioni termali e balneari più famose dell'epoca, mentre il Teatro era un edificio in cemento armato semplice e compatto, che poteva contenere un migliaio di spettatori.
Bresciano d'origine e attivo prevalentemente a Torino, a Milano costruì diverse abitazioni per l'alta borghesia e fu tra i dodici architetti italiani premiati nel 1906 all'Esposizione Internazionale di Milano. Nel capoluogo lombardo l'abitazione che progettò lungo corso Magenta, Casa Laugier, rappresenta una delle costruzioni più importanti per l'architettura Liberty: un edificio maestoso ed elegante sul quale si distinguono decorazioni di marcato tono secessionista da decorazioni tipiche del florealismo italiano.
Milano, piazza Duomo 15 settembre 1867: dopo due anni dalla posa della prima pietra da parte veniva inaugurata la Galleria Vittorio Emanuele II.
La nuova galleria era una sorta di strada coperta che metteva in comunicazione la piazza della Scala con quella del Duomo: la forte connotazione commerciale della zona del centro storico trovava finalmente un'affermazione esplicita. La galleria, infatti, nasceva per accogliere negozi, caffé, ristoranti entro uno spettacolare spazio scenografico. L'architetto Giuseppe Mengoni aveva progettato una struttura moderna e decisamente ardita sul modello della contemporanea architettura industriale e furono molte le difficoltà costruttive incontrate in corso d'opera, difficoltà che rallentarono i lavori conclusi definitivamente solo nel 1877. Mengoni realizzò una lunga galleria attraversata da un braccio, con al centro dell'incrocio un grande ottagono sovrastato da una cupola; la copertura prevedeva un'ossatura in ferro e il resto in vetro, introducendo materiali costruttivi industriali nell'architettura civile: un'incredibile novità, che mostra come sul finire dell'Ottocento l'industria avesse ormai raggiunto lo stesso piano della cultura e delle arti. Gli interni sono caratterizzati da decorazioni di un "bizzarro" e omogeneo gusto eclettico: grottesche, cariatidi, lunette e lesene si susseguivano lungo le pareti della galleria, risolvendo l'ornamento in un «effetto complessivo di grande efficacia». I due ingressi principali, quelli del braccio più lungo, erano risolti da due grandi archi trionfali di un'impronta classicista tanto forte che quasi andava a scontrarsi con l'Eclettismo dell'interno. All'inaugurazione del 1867 mancava ancora quello dell'ingresso principale, la cui realizzazione si protrasse per un intero decennio, a causa di problematiche vicende legali, amministrative e finanziarie. E l'arco, oltre che la conclusione della Galleria, rappresentò anche la fine della vita dell'architetto: Mengoni morì proprio precipitando dalla cupola durante un'ispezione il 30 dicembre1877, alla vigilia della celebrazione del completamento dell'opera, anche se non pochi si spinsero ad ipotizzare che si trattasse di un suicidio, dovuto alle numerosissime critiche ricevute. Sin dalla prima apertura del 1867 la Galleria Vittorio Emanuele II si era mostrata il "salotto di Milano", dove l'élite intellettuale e quella borghese e l'aristocrazia cittadina si trovava al tavolino di un caffé la sera, per bere un amaro e scambiare due parole. La vivace mondanità del «cuore nobile e frivolo» di Milano trovò un interprete eccellente nel pennello di Umberto Bocconi. Nel 1910 il pittore realizzò Rissa in Galleria: una folla di persone che tra le eclettiche pareti della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano si ammassa davanti alle vetrine del Campari caffé, per seguire una zuffa fra donne; quest'opera mostrava anche cos'era la Galleria nel XX secolo, cioè lo specchio della «città strepitosa con la sua folla moderna, inquieta, nervosa e diversa».
A Milano la riconfigurazione del centro storico partì dalla Piazza del Cordusio, fulcro del nuovo sistema stradale urbano (legava il Duomo al Castello Sforzesco), che, negli anni tra il 1898 e il 1902, vide attivo un enorme cantiere, sotto la direzione attenta ed esperta di Luigi Broggi. Il Palazzo delle Assicurazioni Generali, il Palazzo della Borsa, e il Palazzo del Credito Italiano completarono l'assetto di Piazza Cordusio, confermando la destinazione a centro finanziario della città. Subito dopo sarebbero state costruiti altri edifici, per accogliere il dinamismo del "mondo degli affari", e si ebbero così i grandi magazzini Contratti e i palazzi delle Poste e Telegrafi, della Banca Commerciale Italiana e della Banca d'Italia. L'area attorno alla Piazza Cordusio doveva essere il perno della vita sociale, imprenditoriale ed economica del capoluogo lombardo e per edificarla fu sfruttato un modulo compositivo unico, che assommava tutti i palazzi della zona. Il linguaggio monumentale del Cinquecento lombardo era la cifra stilistica comune di questi palazzi, che imponeva non solo un'equilibrata composizione architettonica, ma anche l'impressione della stabilità e della funzionalità necessarie al buon funzionamento del «primo e moderno centro direzionale cittadino».
Allievo di Camillo Boito prima e professore di Architettura all'Accademia di Brera poi, Luigi Broggi fu con Luca Beltrami uno dei protagonisti del rifacimento del centro di Milano, sulla base del Piano Regolatore di Cesare Beruto. In questo contesto, sono degni di nota i Magazzini Contratti, il Palazzo del Credito Italiano e il Palazzo della Borsa, che ancora oggi dominano la zona di Piazza del Cordusio con la loro plastica monumentalità di impronta cinquecentesca.
La carriera di Luigi Broggi assunse notevole importanza anche grazie al suo impegno teorico quale autore di importanti testi teorico-didattici, che rappresentano per noi una lucida testimonianza dei dibattiti stilistico-architettonici della Belle Époque.
Dopo avere ricevuto con Giuseppe Sommaruga il premio per il Progetto del Palazzo del Parlamento a Roma (1889), Broggi fu chiamato a collaborare nell'organizzazione dell' Esposizioni Riunite di Milano (1894). Gli furono affidati la ricostruzione storico-archeologica del Teatro Pompeiano e la progettazione di alcuni padiglioni, improntati a quell'Art Nouveau che tanto successo stava riscuotendo in Europa.
Milano, Piazza del Cordusio
Il primo edificio frutto del nuovo assetto urbanistico milanese fu il Palazzo delle Assicurazioni, costruito sul fuoco prospettico delle visuali di via Dante e via Broletto, quasi a sfidare in monumentalità il prospiciente Castello Sforzesco. Con questa struttura andava a concretizzarsi una nuova architettura del terziario segnando l'intera zona della Piazza Cordusio con un'impronta marcatamente cinquecentesca. Il Rinascimento lombardo, infatti, è il motivo dominante del progetto, messo a punto da Luca Beltrami: l'architetto intendeva infondere al palazzo il «carattere monumentale» degno di un edificio di tale prestigio attraverso l'armonia compositiva dell'insieme, l'eleganza delle linee e la ricchezza dei particolari ornamentali. In questa occasione Beltrami mostrava la possibilità di realizzare un tipo di architettura che unisse la tradizione più alta della storia italiana alla ad una capacità di rinnovamento ed inventiva.
Milano, Piazza Cordusio 2
La forte crescita del mercato che si stava verificando verso la fine dell'Ottocento impose la costruzione di una sede per la Borsa. A Milano il luogo prescelto fu la Piazza del Cordusio e l'incarico fu affidato all'architetto Luigi Broggi, che riprese il linguaggio neo-cinquecenesco del vicino Palazzo delle Assicurazioni Generali Venezia. L'architettura dell'edificio presenta gusto e riferimenti classici: colonne, lesene e frontoni ornano una facciata dalla composizione armonica ed equilibrata. Quando venne solennemente inaugurato nel 1901 si pensò di aver definitivamente risolto i problemi logistici, ma alla fine degli anni '20 del Novecento, in seguito al progetto dell'attuale Palazzo della Borsa, l'edificio perse la sua destinazione originale e divenne sede delle Poste.
Milano, Piazza Cordusio
Nel piano di rinnovamento urbanistico milanese, l'area attorno a Piazza Cordusio fu da subito desinata a essere perno della circolazione cittadina e sede dei grandi capitali. In questo "centro economico" della città, fu costruito nei primi due anni del Novecento il Palazzo del Credito italiano che oggi ospita la sede milanese di UniCredit Banca (mantenendo pertanto la destinazione originaria). Autore del progetto fu Luigi Broggi, impegnato in quegli anni proprio nella sistemazione dei palazzi di quella zona, che creò una facciata concava e dalla decorazione ridondante. L'esuberanza dell'ornato si contrappone alla composta definizione dei volumi, che sviluppano una struttura di chiara impostazione cinquecentesca. La presenza, pertanto, di questi elementi apparentemente contrastanti contribuisce a inserire il palazzo tra le costruzioni "eclettiche" del periodo. Si tratta però di un eclettismo in cui prevale la componente Art Nouveau: se lasciamo correre lo sguardo sulla facciata, è il grande orologio incastonato nel timpano del portale d'ingresso ad attirare la nostra attenzione. E i fiori e la frutta che lo incorniciano sono indiscutibilmente un segno del gusto Liberty di quella stagione.
Milano, via Tommaso Grossi
La costruzione dei Magazzini Contratti portava a Milano numerose novità, soprattutto in campo edilizio. L'arrivo in Italia dei grandi magazzini, aveva comportato la esigenza di disporre di edifici dall'architettura semplice e funzionale, adatti ad accogliere un gran numero di clienti. Luigi Broggi percepì le necessità pratiche e spaziali di un "magazzino di vendita" e ottimizzò le potenzialità di una costruzione a ossatura e a sistema misto tra ferro e cemento armato. Ne risultò un edificio con ambienti ampi, che rispondevano ai bisogni commerciali ed espositivi; la facciata si apriva sulla strada, come un'unica grande vetrina, alla quale le griglie metalliche di Alessandro Mazzucotelli davano il sapore di un fronte neo-barocco.
Milano, Piazza della Scala
La fervida attività edilizia che animava il centro storico milanese all'inizio del Novecento si protrasse almeno per due decenni: ancora negli anni '20 del secolo Luca Beltrami era impegnato nella costruzione della nuova sede della Banca Commerciale Italiana. La monumentalità rinascimentale tipica dei progetti dei decenni precedenti (i padiglioni per le Esposizioni Riunite di Milano e il Palazzo delle Assicurazioni Generali) fu sfruttata anche in questa occasione per costruire un edificio di equilibrata impostazione neorinascimentale.
Milano, via Armorari
Tra il 1907 e il 1912 l'architetto Luigi Broggi e l'ingegnere Cesare Nava sono impegnati nella sede milanese della Banca d'Italia, che oggi ospita la Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza. Viene realizzato un edificio decisamente "moderno", non solo per le scelte stilistico-architettoniche, ma anche per la serie di «servizi industriali» inerenti agli impianti elettrici e idraulici: l'uso sapiente di ornamenti polimaterici viene affiancato allo "sfruttamento" aggiornato di tecnologia all'avanguardia. Impianti di ventilazione, di riscaldamento, di refrigerazione, ascensori, telefoni ed elettricità, ma anche strutture in ferro e cemento armato, etc... convivono con marmi, pietre naturali e pietra artificiali, ferri battuti, bronzi e vetrate colorate per realizzare una struttura di incredibile ricchezza che, questa volta, non è solo decorativa, ma è anche tecnologica.
Dopo gli studi al Politecnico di Milano e all'Accademia di Belle Arti, Luca Beltrami frequentò la scuola di Belle Arti di Parigi; nella capitale francese fu attivo sia nella progettazione ex -novo, sia nella conservazione di monumenti "storici". Nel 1878 collaborò alla costruzione del padiglione italiano all'Esposizione Universale di Parigi del 1878 e due anni dopo tornò in Italia per assumere l'incarico di professore di Architettura e Geometria descrittiva alla Accademia di Belle Arti.
Per quello che riguarda la progettazione, Beltrami con Luigi Broggi è da considerare tra i protagonisti del rinnovamento del centro storico di Milano, nelle ricostruzioni del Piano Regolatore di Cesare Beruto tra il 1884 e il 1889. A questa fase della carriera dell'architetto va ascritto la realizzazione del Palazzo Generale delle Assicurazioni Venezia. Il suo interesse principale, però, fu sempre rivolto al restauro storico soprattutto per la sua attività nel campo della conservazione e della tutela del patrimonio artistico e architettonico: affrontava il restauro e la ricostruzione di un monumento dopo averne compiuto un attento studio filologico e storico, preoccupandosi del suo contesto e del suo "tessuto connettivo". A lui venne affidata la direzione dei lavori di restauro del Castello Sforzesco.
Nel corso del XIX secolo le grandi città europee furono oggetto dei cosiddetti "sventramenti" che ne rivoluzionarono l'aspetto: con l'obiettivo di migliorare la viabilità cittadina e le condizioni di vita degli abitanti, furono approvati una serie di progetti urbanistici che reimpostarono l'assetto urbano, talvolta stravolgendolo totalmente. In Italia, il primo esempio di tale volontà di "miglioramento" è il Piano Regolatore del 1884, dell'ingegner Cesare Beruto. Egli compilò per la città di Milano il piano d'espansione oltre i Bastioni Spagnoli, predisponendo infrastrutture viarie e di trasporto per un centro urbano a crescita illimitata. I lavori di ammodernamento della città partirono dal centro, tra piazza del Duomo e il Castello Sforzesco, con la realizzazione della nuova via Dante. Tuttavia agli inizi degli anni Novanta l'attività edilizia della zona subì un arresto e fu solo a fine Ottocento che l'area attorno alla Piazza del Cordusio fu ultimata, creando il nuovo centro finanziario di Milano.
Milano, via Bocchetto 8
La spazialità funzionale e razionale su cui furono costruiti numerosi grandi magazzini di inizio Novecento fu la stessa utilizzata da Achille Manfredini nel progetto della Casa Lancia: «qui il cemento, morbido come materia plasmabile a fini scultorei, modellava i fitti ornamenti vegetali attentamente distribuiti in facciata, mentre teso e monolitico come materia costruttiva, traguardava visibilmente la gabbia strutturale di un volume pensato per molteplici destinazioni». Manfredini realizzò un'architettura a pianta aperta, in cui ogni piano corrisponde a un unico ambiente, nel quale si possono installare botteghe, magazzini, studi, abitazioni, etc... ai quali si poteva salire in ascensore. L'edificio fu abbattuto nel 1939, per far posto alla nuova sede della Banca di Roma: oggi, a ricordo della travolgente verticalità del Liberty della Casa Lancia, rimangono solo alcune vecchie fotografie.
Milano, viale Majno 15
Tra il 1911 e il 1913 Gaetano Moretti si occupò dell'edificazione della propria abitazione: si tratta di un edificio di notevole interesse nell'ambito del Liberty milanese, perché affianca alcuni elementi "tradizionali" dello stile floreale ad altri aggiornati su un linguaggio architettonico più recente e razionale. Pertanto motivi modernisti tipici come le finestre a loggia curvilinee o i motivi a ghirlanda sono mantenuti, ma vengono inseriti tra quelle strutture turriformi verticali e ferri a disegni geometrici tipici dell'architettura successiva al 1910.
Proveniente da una famiglia di marmorini di Viggiù, Enrico Butti mostrò sin da giovanissimo una spiccata propensione per la scultura. Nel 1861 si trasferì a Milano, per studiare all'Accademia di Belle Arti di Brera; accostò allo studio i primi lavori, riproducendo opere di scultori famosi. Dal 1893 affiancò alla "pratica" l'insegnamento come titolare della cattedra di Scultura all'Accademia di Brera, dove rimase fino al 1913. L'abilità nella resa plastica del marmo, che lavorava come se fosse materia morbida e facilmente plasmabile, gli valse presto un grosso successo e importanti committenti, come la Fabbrica del Duomo di Milano, per la quale a metà degli anni Settanta realizzò alcuni santi. Il campo in cui la sua arte eccelse fu quello dei monumenti celebrativi, tra cui spicca il monumento a Giuseppe Verdi (1913), a Milano, in Piazza Buonarroti davanti alla Casa di Riposo dei Musicisti. Altro settore nel quale Butti si distinse fu quello della scultura funeraria. Se in lavori come il Minatore (1888) e Il Lavoro (1900) l'espressività plastica è sfumata dal significato sociale dell'opera, nei monumenti funerari la forza dell'eloquenza scultorea è l'unica protagonista: l'Edicola Isabella Casati al Cimitero Monumentale di Milano è esempio di come Butti fosse in grado di imprimere vita palpitante alla materia.
Milano, Sesto San Giovanni, viale Italia
Agli inizi del Novecento Milano si espande oltre le mura spagnole nella zona a Nord della città si installano primi grandi insediamenti industriali; già in questi anni si parla di «Quartiere Industriale Nord Milano», una sorta di città lineare da Milano a Sesto San Giovanni, che avrà il suo culmine alla fine degli anni Cinquanta del XX secolo. Tra le aziende che popolavano questo quartiere emerge, per dimensione e organizzazione, la Società Anonima Acciaierie e Ferriere Lombarde, costituita nel 1906 e che quattro anni dopo occupava quasi un migliaio di operai producendo da sola circa l'otto per cento dell'intera produzione nazionale. Secondo il sistema dell'epoca furono costruite per i dipendenti negli anni tra il 1908 e il 1924 abitazioni e servizi nei pressi degli stabilimenti di produzione. Tre isolati definiti da un tracciato viario a maglia ortogonale, delimitato, esclusivamente nella parte posteriore a est, da un muro di cinta definivano l'impianto del villaggio. La struttura gerarchia della fabbrica fu rispettata nell'organizzazione del quartiere, dove furono realizzati vari tipi d'abitazione: villini per operai, per capo-operai e per impiegati; ciascuna abitazione era inoltre dotata di un orto-giardino, che permetteva alle famiglie di impegnare il tempo libero per migliorare la propria alimentazione e di integrare il reddito. Furono costruite anche palazzine operaie a quattro e cinque piani e un fabbricato con la destinazione a refettorio e dormitorio. L'ideologia comunitaria e imprenditoriale dei più avanzati villaggi operai d'Europa si imponeva così anche a Sesto San Giovanni, definendo un complesso residenziale di importanza centrale per l'intera storia dell'industria italiana.
Milano, via Lincoln, via Sottocorno, via Archimede, via Franklin, via Cellini
Tra il 1884 e il 1889 la Società Edificatrice di Abitazioni Operaie realizzò a due passi dal centro di Milano un piccolo quartiere di case operaie. Furono costruite casette unifamiliari dotate di orto-giardino e di servizi in comune (lavatoi) e anche di luoghi di aggregazione sociale e di ritrovo. Le costruzioni facevano parte di un progetto più vasto di una vera e propria "città operaia", che per mancanza di fondi, non fu mai ultimata; entro la fine degli anni Ottanta erano però stati realizzati anche due alberghi e un opificio (ora smantellati), insieme a una rete di piccole attività produttive. Questi edifici un tempo destinati ai laboratori artigianali oggi ospitano parte dei locali della casa editrice Bruno Mondadori.
Milano, via Moncalvo 4
Nel 1919 la fabbrica di tessuti De Angeli-Frua intraprese la costruzione di un complesso residenziale in prossimità dei propri stabilimenti: sul modello anglosassone dei villaggi operai fu realizzato un quartiere composto da abitazioni costruite "in serie": trentuno villette con un giardino, per un totale di duecentotrenta locali per sessanta famiglie. Alla semplice impostazione architettonica della casa operaia si volle aggiungere anche qualche dettaglio in linea con il gusto decorativo dell'epoca come nelle le finestre incorniciate da motivi floreali in cemento modellato.
Milano, viale Sarca 142-152
Agli inizi del Novecento Milano si espande oltre le mura spagnole la zona a Nord della città diventa sede dei primi grandi insediamenti industriali. Tra questi, nel cosiddetto «Quartiere Industriale Nord Milano» si distingue lo stabilimento Pirelli. La fabbrica, fondata nel 1872 per produrre articoli in gomma, si espanse rapidamente, tanto che agli inizi del XX secolo era la prima in Italia nella produzione di pneumatici. Attorno agli anni Venti sorse attorno allo stabilimento milanese un villaggio operaio, destinato a ospitare i dipendenti dell'azienda. Il connubio azienda-residenza già sfruttato ampiamente in Italia (si pensi al Villaggio Operaio di Crespi d'Adda), trovò terreno fertile anche nella periferia milanese. Realizzando le abitazioni e gli svaghi in prossimità della fabbrica, gli imprenditori riuscivano ad attirare le maestranze il cui numero doveva crescere continuamente per far fronte all'aumento della produzione e sull'altro lato potevano esercitare meglio una funzione di controllo dei dipendenti. Le villette per gli operai della Pirelli furono realizzate impiegando blocchi cavi di cemento facili da realizzare e da porre in opera da manovalanza non specializzata; una tecnica edilizia di questo tipo favoriva la rapidità nella costruzione e permetteva l'immediata abitabilità del locale. Gli esterni delle case furono decorati con elementi di matrice Liberty che, pur contribuendo a uniformare ulteriormente l'abitato, riuscivano a conferire un po' di "vivacità" alla tetra atmosfera della zona industriale.
Milano, piazza Cimitero Monumentale 2
Nel 1860 il Comune di Milano bandì il concorso per il progetto di un nuovo cimitero, che sostituisse i sei camposanti suburbani allora esistenti. Il vincitore fu l'architetto Carlo Maciachini, che nel 1862 fornì i primi progetti e tra il 1866 e il 1877 diresse i lavori. Egli raggruppò sul fronte le principali strutture architettoniche, disponendole come in una gran corte d'onore affacciata sulla città. Due ali porticate che attraverso gli ampi colonnati lasciano intravedere il paesaggio retrostante delle edicole sono unite al centro dal Famedio, il fulcro dell'intero complesso. Il Famedio (dal latino famaeaedes: Tempio della Fama) rappresenta l'ingresso principale del cimitero, originariamente destinato a chiesa cattolica, nel 1870 fu trasformato in pantheon dei lombardi illustri al cui centro si erge austero il sarcofago di Alessandro Manzoni, il primo a esservi traslato nel 1883, dieci anni dopo la morte. In origine esteso per circa 180.000 mq, che oggi sono più di 250.000, il cimitero è organizzato sull'incrocio ortogonale di alcuni assi, sui quali si affacciano cappelle, sepolcri e monumenti: si crea così una griglia di zone suddivisa tra le gallerie e le arcate all'ingresso, i "Riparti" distribuiti su tutta l'area, le zone rialzate ai lati, la "Necropoli" centrale a impianto ottagonale, le fasce perimetrali dette "Circondanti", i "Giardini cinerari" sul fondo.
Nel 1895 fu istituita la sepoltura perpetua che diede il via sia alla produzione di progetti architettonici, sia, in particolare, di invenzioni scultoree dall'intenso vigore plastico: oggi le tombe, le edicole e i monumenti del cimitero milanese appaiono, a noi, come preziosi oggetti esposti in mostra, come un incredibile "museo a cielo aperto", dove convivono gli spunti e gli stili di epoche diverse e i nomi di celebri architetti.
Cimitero Monumentale di Milano, rip.VI, spazio 142
Nel 1900 Gaetano Moretti vince un concorso indetto per il progetto del sepolcro del principale benefattore dell'Istituto per ciechi di Milano, il medico Gaetano Casati. L'architetto disegna una struttura in cui fonde elementi architettonici e quelli ornamentali costituiti da quattro figure femminili bronzee (Fede, Riconoscenza, Carità e Speranza) affidate allo scultore Antonio Carminati. Le forme fluttuanti delle allegorie si contrappongono alla ferma monumentalità del sarcofago, realizzando una composizione di grande impatto emotivo.
Cimitero Monumentale di Milano, rip.II, spazio 204
Quando nel 1906 Ernesto Pirovano viene chiamato a progettare l'Edicola della famiglia Verga esibisce le conquiste moderniste del proprio stile. L'architetto realizza una struttura imponente, il cui solido schema tronco-piramidale viene "mosso" dalla decorazione del cancello in ferro battuto di Alessandro Mazzucotelli.
Cimitero Monumentale di Milano, area centrale, necropoli 28
Tra il 1919 e il 1921 Piero Portaluppi è impegnato al Cimitero Monumentale di Milano nella costruzione di un monumento funerario su incarico di Ettore Conti.
La struttura protorinascimentale e il mattone a vista tradiscono certe affinità con la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, restaurata da Portaluppi in quegli stessi anni; è comunque molto evidente anche la presenza di un decorativismo di gusto classicheggiante, soprattutto nel timpano del fronte d'ingresso. La combinazione di questi elementi contribuisce a imprimere al tempietto l'autorevole monumentalità richiesta dal committente quale affermazione del proprio orgoglio imprenditoriale.
Cimitero Monumentale di Milano, rip. V, sp. 92
Il gusto decorativo Art Nouveau e l'«inarrestabile esigenza retorica e simbolica» dell'architettura funeraria di inizio Novecento raggiunsero una sintesi di particolare originalità negli interventi di Ulisse Stacchini, che nel 1904 progettò il sepolcro per il capomastro Achille Pinardi.
Il forte verticalismo del piccolo edificio veniva smorzato da un disegno arrotondato, che evitando gli spigoli vivi, alleggeriva l'intera composizione.
Cimitero Monumentale di Milano, rip. IV, sp. 89
L'Edicola Beaux, progettata da Ulisse Stacchini nel 1912 ma ultimata solo nel 1931, presenta una struttura una struttura sì monumentale ma qui arrotondata in modo da alleggerirne e modellarne le forme in ossequio ad un gusto secessionista mitteleuropeo. Le finestre, che rimandano a teste d'insetto, la grafia delle iscrizioni, il cancello in ferro battuto e i colori vivi delle vetrate appartengono al medesimo universo di delicata morbidezza.
Cimitero Monumentale di Milano, Cinerario levante, n 176
Nel 1900 Leonardo Bistolfi inaugura la tomba per Erminia Cairati Vogt interpretando in maniera del tutto nuova un tema tradizionale, cioè quello dell'anima che sta per abbandonare il corpo, lo scultore realizza Il Sogno opera evanescente e quasi astratta nella quale limita le notazioni realistiche a pochi tratti anatomici e confonde il resto del corpo nel «vortice di un velo cosparso di rose, il cui turbinio sembra rimandare ai più felici esiti dinamici della scultura seicentesca». La figura si stempera così in una superficie avvolgente che alleggerisce e rende evanescente il marmo fino ad assorbirlo completamente nella materia, appunto, del sogno.
Cimitero Monumentale di Milano, rip.VII, sp.184
Tra i capolavori di Leonardo Bistolfi va annoverata la tomba costruita tra il 1909 e il 1911 per il figlio del compositore Arturo Toscanini, Giorgio, morto nel 1904 a soli quattro anni. In quest'opera l'inclinazione modernista dell'architetto sfuma nell'atmosfera evocativa del bassorilievo un bassorilievo che sembra piuttosto un intaglio. Bistolfi non rappresenta mai il bambino, ma «evoca la breve parabola della sua vita» con la raffigurazione dei temi della nascita, dei giochi dell'infanzia, del dolore e del viaggio per mare. L'assenza del chiaroscuro è quasi una rinuncia al plasticismo e fa sì che le forme siano definite dal secco contorno dell'intaglio.
Cimitero Monumentale di Milano, rip.V, sp.86
Nel 1890, ispirandosi al tema del sogno della morte, lo scultore Enrico Butti realizzò il monumento funerario per la giovane sposa del barone Casati, Isabella Airoldi, morta ventiquattrenne l'anno precedente. L'artista propose un'immagine d'impatto emotivo fortissimo, incorniciata da una composizione elegante e ritmata. La fanciulla è distesa sul letto, coperta da un lenzuolo leggerissimo; alle sue spalle la visione di un sogno sfonda illusivamente il fondale e dispone simmetricamente, nello spazio tondo costellato di stelle, le figure degli angeli che scendono dal Paradiso per accompagnare l'anima. La versione in gesso presentata all'esposizione di Brera del 1891 ottenne il prestigiosissimo premio Principe Umberto e diventò immediatamente modello per numerose sculture funerarie.
Varesino d'origine, ventenne si trasferì a Milano dove aprì un laboratorio di ebanista e contemporaneamente frequentò i corsi dell'Accademia delle Belle Arti di Brera che terminò con il diploma di architetto. Nel 1860 vinse il concorso per il progetto del Cimitero Monumentale di Milano, che lo tenne impegnato dal 1866 al 1877, anno di inaugurazione del Famedio.
Nel nuovo cimitero milanese, Maciachini utilizzò una grande varietà di marmi e pietre, cemento e ferro, modulandoli sull'originale combinazione dei diversi stili storici. L'abile accostamento di colori, tecniche e materiali entro forme continuamente rinnovate colloca l'opera entro la corrente stilistica dell'Eclettismo, "tipica" dell'architetto varesino; la componente floreale e puramente Liberty dell'epoca, però, prevale sulle altre tipologie ornamentali.
Dopo i lavori al cimitero, Carlo Maciachini intraprende una fortunata carriera concentrata prevalentemente sulle architetture funerarie e sulla ristrutturazione di chiese e cappelle. Alla sua morte, fu sepolto nello stesso Cimitero Monumentale di Milano che ne aveva "lanciato" la carriera, all'ingresso della Galleria AB inferiore di ponente.
Formatosi a Milano sotto la guida dell'architetto Angelo Colla, lavorò prevalentemente in area lombarda. Inizialmente aderì ad uno stile composito, costruito sull'unione di elementi storici, successivamente si rivolse allo stile secessionista, austero e sobrio, ma in maniera discontinua ed eclettica. Ciò emerge con le scelte effettuate nel Villaggio di Crespi d'Adda, dove cominciò a delinearsi un nuovo linguaggio architettonico, a metà strada tra gli stili storici e le novità Art Nouveau. Pirovano mostrò tutta la propria inclinazione modernista nel 1906, all'Esposizione Internazionale di Milano: vinse il concorso per il progetto del Cimitero di Mantova e fu uno dei tre architetti (insieme Raimondo D'Aronco e a Cesare Bazzani) che ottennero il premio dell'esposizione.
Dopo questa data, la sua opera fu caratterizzata dall'utilizzo continuo e personale dello stile Liberty in numerose abitazioni, come Casa Bojani (distrutta), Casa Ferrario e Casa Tensi.
Diplomatosi in architettura a Venezia, Raimondo D'Aronco, dal 1881 intraprende la carriera della docenza accademica senza tuttavia rinunciare alla progettazione.
è del 1893 il suo primo viaggio in Turchia, dove lavorò moltissimo: l'anno successivo, infatti, venne nominato Architetto di Stato addetto alla Ricostruzione dopo il terremoto di Istanbul. Da questo fino al 1909 momento alterna soggiorni e progetti in Turchia (dove realizza anche la residenza estiva dell'Ambasciata d'Italia a Therapia, nel 1905), ed in Italia.
Degno di nota è il suo lavoro per la Prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino del 1902: qui D'Aronco progetta strutture effimere di incredibile semplicità architettonica alle quale affianca un'imponente apparato ornamentale. E sono le decorazioni la vera "novità" dell'opera di D'Aronco, che realizza un'organica organizzazione dello spazio, incastrando i volumi architettonici con il valore plastico delle superfici e delle decorazioni.
Milano, via Spadari 3-5
Nel 1904 Ernesto Pirovano realizzò nella centralissima via Spadari un'abitazione oggi annoverata tra gli esempi più celebri del Liberty lombardo. La "modernità" della costruzione non risiede tanto nella struttura architettonica (di per sé tradizionale), quanto nei balconi che si affacciano sulla strada. Questi sono legati nei due sensi, verticale e orizzontale, grazie l'uso di un'inferriata ricca e abbondante. E sono proprio i ferri battuti di Alessandro Mazzucotelli a rappresentare la cifra dichiaratamente modernista dell'edificio con i fiori e le farfalle il cui movimento fluido ed elegante che sembra una danza.
Milano, via Vivaio 4
L'architettura di quest'abitazione mostra l'evoluzione in direzione modernista di Ernesto Pirovano, che esibisce un disegno organico, profondamente coerente, in cui il bow-window curvilineo si accorda perfettamente con il movimento vibrante delle decorazioni. è da notare, inoltre, la corrispondenza formale e decorativa tra esterno e interno, frutto di una razionalità progettuale tipica di Pirovano e ulteriore conferma del tono internazionale che traspare dall'intero edificio.
Milano, via De Bernardi 1
La perizia e l'economia di spazio proprie di tanta architettura di Giovanni Battista Bossi trovano piena espressione negli anni tra il 1904 e il 1906, nell'accentuato verticalismo di Casa Alessio. «L'ampia fascia che si sviluppa ascensionalmente in corrispondenza dell'androne d'ingresso costituisce quasi una pausa al fitto susseguirsi di timpani e cornici di sapore classicheggiante». Lo slancio verticale dell'intero edificio tradisce un'inclinazione secessionista, confermata dalle grandi finestre in facciata, che va a contrapporsi al forte classicismo di timpani e cornici. E i motivi floreali talvolta accennati sulle finestre, ci ricordano che siamo in Italia, nel pieno della stagione Liberty.
"In nome di Sua Maestà il Re dichiaro aperta l'esposizione". Con queste parole il ministro dell' Agricoltura, dell'Industria e del Commercio, Luigi Miceli, inaugurò alla presenza dei sovrani italiani la prima Esposizione Nazionale di Milano. Era il 5 maggio del 1881 e, con l'intento di tracciare un bilancio economico, commerciale e industriale del Paese, l'Italia unita aprì al mondo una vetrina sui progressi compiuti negli ultimi vent'anni.
La manifestazione rispondeva anche al bisogno di autocelebrazione della borghesia imprenditoriale e offriva l'occasione di una grossa pubblicità, all'industria italiana in generale, lombarda in particolare (su 7.150 espositori quasi 1.530 appartenevano al capoluogo, senza contare quelli della provincia milanese). L'iniziativa, infatti, era di matrice privata ed era in gran parte dovuta alla determinazione di alcuni imprenditori; il Comune di Milano concesse a fatica il proprio appoggio, stanziò una cifra modestissima per il finanziamento e mise a disposizione l'uso dei Giardini Pubblici e dei cortili del Palazzo del Senato; il re stesso, inoltre, concesse l'utilizzo del giardino e del primo piano della Villa Reale. L'esposizione si estendeva nell'area compresa fra Corso Venezia, Via Palestro e i Giardini pubblici per 162.000 mq, di cui 57.387 coperti; di questi, solo 3.370 appartenevano a strutture già esistenti.
In dieci mesi, secondo il progetto di Giovanni Ceruti, furono costruite gallerie in legno, grandi saloni e chioschi disseminati nei giardini: era una città dentro la città.
Gli espositori del nucleo centrale della fiera, dedicato all'industria, erano suddivisi in 11 gruppi e 66 classi. Moltissimi furono gli spazi dedicati all'industria delle macchine e della meccanica in generale: tra i numerosissimi stand i visitatori potevano ammirare quello della ditta Elvetica (poi Breda) e quello della ditta Pirelli, dove era messa in mostra la lavorazione di un nuovo materiale, il caoutchouc (gomma), «una certa materia grigia fusa che mano mano battuta, tagliata, incollata, gonfiata e dipinta, passando da una ventina di mani finisce per esser una gran palla».
Un incredibile fascino suscitarono sul pubblico anche le "brianzole", le donne della Brianza intente alla lavorazione delle seta; la loro presenza alla manifestazione era la dimostrazione di un legame oramai inscindibile tra l'industria, la tradizione e l'artigianato.
Per lo svago del pubblico erano inoltre stati realizzati un trenino, un velocipede sospeso, una fontana dai colori cangianti, una torre panoramica e un ascensore a forza idraulica; durante i sei mesi dell'esposizione furono organizzati anche spettacoli, tornei sportivi, concerti e altri eventi mondani, volti ad interessare e coinvolgere un numero sempre più ampio di visitatori; le più gradite erano forse le esibizioni circensi; in quanto spettacolo popolare erede dei saltimbanchi e dei baracconi da fiera, il circo rappresentava quel filo diretto tra gli svaghi tradizionali e i divertimenti della modernità.
Pubblico numeroso affluì anche all'Esposizione delle Belle Arti, organizzata autonomamente, ma strettamente collegata all' Esposizione Industriale, della quale rappresentava una parte complementare. Il successo della sezione artistica fu tale che la casa-museo Poldi Pezzoli, aperta per la prima volta in concomitanza con l'esposizione, diventò un punto di riferimento internazionale. è inoltre da sottolineare come in questa occasione venne prodotto in Italia il primo catalogo illustrato di un'esposizione di Belle Arti: pioniere fu l'editore Sonzogno, affiancato dagli stessi artisti che avevano fornito disegni e incisioni.
Di questa prima esposizione milanese rimangono numerose fotografie e illustrazioni dell'epoca, ma sono soprattutto i numeri a poter dare un'idea della grandiosità dell'evento: 8.512 espositori e 21.412 oggetti esposti entro una superficie di 162.000 mq. Quasi 750.000 visitatori testimoniarono il successo italiano e, in particolare, lombardo che allineava il 55% degli espositori nel settore meccanico, il 54% in quello cartario, il 48% nel tessile e il 57% nell'abbigliamento.
Per sei mesi i quotidiani e periodici della Penisola non parlarono d'altro che dell'Esposizione Nazionale, incoronando Milano "capitale economica" d'Italia.
Il 6 maggio 1894 Milano inaugurava le "sue" Esposizioni Riunite. L'uso del possessivo è quasi d'obbligo per un evento che la città, o meglio la sua classe dirigente, aveva dimostrato di volere con forza e con tenacia, per presentare la ripresa economica della nazione italiana.
Erano passati soltanto tredici anni da quando, nel 1881, il capoluogo lombardo era stata sede di un'Esposizione Nazionale Industriale e Artistica che ne aveva delineato l'immagine di città "operosa" e ne aveva avviato il "mito" di capitale industriale ed economica: adesso la città consolidava ancora il suo ruolo.
L'esposizione fu allestita nel Castello Sforzesco (la cui ristrutturazione fu completata a tappe forzate per l'occasione) e nella parte del Parco Sempione che si stava realizzando nell'antica piazza d'armi.
Furono riunite insieme undici diverse esposizioni, alcune nazionali e altre internazionali, indipendenti tra di loro, ma coordinare da un comitato esecutivo comune: l'Esposizione Nazionale di Belle Arti, congiunta alla seconda mostra triennale dell'Accademia di Brera; l'Esposizione Nazionale dell'Arte Teatrale; l'Esposizione Internazionale di Fotografia; l'Esposizione Nazionale di Vini e Olii cui si collegava l'Esposizione Internazionale delle macchine vinicole e olearie; l'Esposizione Nazionale Orticola; l'Esposizione Internazionale Operaia; l'Esposizione dello Sport (nazionale e internazionale a seconda delle categorie), che abbinava le manifestazioni ludiche all' «aspetto industriale e produttivo»; l'Esposizione Nazionale Geografica ed Etnografica; l'Esposizione Internazionale Filatelica e delle Poste; l'Esposizione Nazionale delle Arti Grafiche, dove accanto alle tecniche della stampa si esibiva la produzione e il lavoro di editori e librai; l'Esposizione Internazionale della Pubblicità, un settore "modernissimo" che metteva in mostra «i mille mezzi inventati dall'industria per vincere nella gara della concorrenza». Gli espositori totali furono circa 6000 di cui 1600 della mostra operaia, 800 del settore dei vini e degli olii, 400 dello sport, 350 della fotografia e 216 dell'arte teatrale.
Obiettivo delle Esposizioni Riunite era la dimostrazione dei successi economici del Paese; accanto a questo "scopo generale", ogni esposizione veniva organizzata in vista di un proprio "scopo particolare", come l'apertura di nuovi mercati o la diffusione di nuove scoperte tecnico-scientifiche.
All'architetto Luca Beltrami furono affidati i lavori di restauro del Castello Sforzesco e a Luigi Broggi la ricostruzione storico-archeologica del Teatro Pompeiano.
Gli interventi più interessanti si devono al giovane, ma già affermato Giuseppe Sommaruga che realizzò l'ingresso alle esposizioni, il Palazzo dello Sport e il Caffè-Ristorante Lonati.
La funzione rappresentativa dell'ingresso principale richiese uno stile piuttosto magniloquente, con decorazioni ricche e abbondanti e non diede molto spazio alla creatività; il Palazzo dello Sport e il Caffè-Ristorante, invece, concessero a Sommaruga, la sperimentazione di forme più moderne. L'architetto creò due edifici accoglienti ed eleganti, costruiti con i materiali più moderni utilizzando le tecniche più all'avanguardia.
Un ruolo importante soprattutto per i milanesi e i forestieri non prettamente interessati all'aspetto "commerciale" dell'evento lo ebbe lo spazio dedicato alle attrazioni per il divertimento "di massa", cioè allestimenti per far svagare, divertire ed incuriosire il pubblico; questa zona, letteralmente presa d'assalto durante tutto il periodo in cui funzionò l'esposizione, venne concentrata tra l'Arena e il Castello. Bizzarri chalets adibiti a caffè, ristoranti, buvettes animavano questa zona. Fittissimo era anche il calendario dei concorsi sportivi, dei concerti e delle rappresentazioni teatrali. Le attrazioni vere e proprie erano varie andavano dal Water toboggan (le cascate del Niagara), le Montagne russe, la Ferrovia aerea (dava l'illusione di volare tra le vette più alte), la Torre Stigler e innumerevoli altri "giochi". «Insomma, una sorta di Gardaland ante litteram, o se vogliamo, una Disneyworld alla milanese».
Nel 1901 la città di Varese celebrò il benessere e la prosperità raggiunti nei quarant'anni dall'unità d'Italia con un'Esposizione Regionale. Nei Giardini Estensi fu organizzata un'esposizione fastosa, tra padiglioni e gallerie caratterizzati da una scenografia ricca di decorazioni squisitamente eclettiche. Simbolo dell'intera struttura fu il "cupolone" che alto e imponente svettava sui padiglioni. Il tema centrale della manifestazione era la modernità, celebrata e cantata in tutte le sue forme; veniva così presentata una città servita da tutte le comodità, da infrastrutture e da servizi, meta privilegiata di villeggiatura. Si trattava di una città nella quale il forestiero poteva trovare «trovare tra le bellezze della campagna, tutte le più desiderate comodità dei grandi centri», come si leggeva sulla Guida ufficiale dell'esposizione. La grandiosità della manifestazione fu sottolineata dalla presenza all'inaugurazione del Duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di Savoia, che rimase piacevolmente colpito dalle gallerie. Le cronache dell'epoca raccontano di sue parole «di sincera soddisfazione per l'esito felice e l'importanza» per una mostra che non solo faceva onore agli sforzi compiuti dalle industrie locali nella rincorsa del moderno e del progresso, ma anche all'intraprendenza che animava la classe dirigente. I cittadini tutti erano legati da un fiero sentimento di varesinità, che si incontrava con la lucida consapevolezza di rappresentare qualcosa di diverso all'interno del panorama nazionale, cioè una città in sviluppo continuo che sapeva bilanciare i due principali fattori di ricchezza, il lavoro e il capitale.
Come era accaduto nel 1881 all'Esposizione Nazionale industriale e artistica di Milano e nel 1894 alle Esposizioni Riunite, valorizzando il settore delle arti e quello della creatività l'esposizione varesina mise in mostra quell'armonia generale fra l'arte, l'industria e l'artigianato tipica dei primi anni del Novecento e di tanta produzione Liberty.
Le novità scientifico-tecnologiche e l'industrializzazione della produzione che nella seconda metà dell'Ottocento ispirarono gran parte delle esposizioni industriali furono alla base anche di una particolare manifestazione organizzata a Como nel 1899: per celebrare il centenario della pila e il suo inventore, fu organizzata sulle rive del Lario l'Esposizione Voltiana.
Sui progetti dell'ingegnere comasco Eugenio Linati fu realizzato un ampio spazio fieristico dallo stile eclettico più ricco ed estremo, con un articolato padiglione centrale dal quale si diramavano a stella grandi gallerie. Da un padiglione unico che permetteva una vista continua si sviluppava l'esposizione che partiva dai cimeli voltiani per arrivare alle nuove scoperte della tecnica ed elettriche, fino ai più moderni prodotti dell'industria serica.
Il fronte era in stile impero: un omaggio ad Alessandro Volta e alla sua epoca. Ai lati della loggia, l'austero ornamento tardo-settecentesco veniva interrotto da due gigantesche torri a forma di pila elettrica, una delle quali ospitava un modernissimo ascensore.
Il solo padiglione "a parte" era quello dedicato alle Belle Arti, nel quale erano messe in mostra opere antiche e moderne che ripercorrevano la storia artistica dell'area lariana. In virtù della sua posizione isolata, lo stand artistico fu l'unico risparmiato dall'incendio che devastò l'esposizione l'8 luglio; a Eugenio Linati fu nuovamente affidato il progetto del complesso, che meno di due mesi dopo poteva essere riaperto al pubblico.
Furono numerose le iniziative organizzate attorno all'esposizione, per coinvolgere il pubblico che veniva da fuori e i cittadini stessi tra cui anche una sorta di inno musicale composto da Giacomo Puccini per l'occasione e intitolato Scossa elettrica.
Fontane luminose, cortili eleganti, statue, templi greci e l'ingresso monumentale facevano da cornice a un evento che, oltre a ricordare un cittadino illustre e la sua "moderna" invenzione, celebrava i fasti dell'elettricità e dell'industria della seta, esaltando un dinamismo che sì era tecnologico e industriale ma permeava anche la cultura.
L'Esposizione internazionale del 1906, svoltasi a Milano dal 28 aprile ai primi di novembre, in occasione dell'apertura del traforo del Sempione, arriva in un periodo di grande entusiasmo e denso di novità. L'area occupata è di circa un milione di metri quadri e comprende il Parco e l'ex area della Piazza d'Armi, collegati tramite una ferrovia sospesa. Un terzo circa dello spazio occupato viene coperto dalle costruzioni di numerosi padiglioni progettati da importanti architetti dell'epoca. Se la spesa per realizzare le Esposizioni del 1881 e del 1894 era stata al di sotto dei due milioni, per il 1906 si calcola che le spese furono di oltre sei volte maggiori. L'ex Piazza d'Armi è diventata poi sede definitiva - dal 1923 - della Fiera di Milano.
La Torre Stigler fu una via di mezzo tra il divertimento puro e semplice e la dimostrazione di funzionamento di una recente invenzione: l'ascensore; realizzata in acciaio per le Esposizioni riunite di Milano del 1894, su progetto dell'ingegner Augusto Stigler,fotox08 pioniere nel campo ascensoristico, era alta 50 metri; all'interno scorreva una cabina che portava il pubblico a un'altezza di 38 metri.
Qui la gente poteva affacciarsi a un terrazzino dal quale ammirava il panorama della città e quello dell'esposizione. La forza che spingeva in alto la cabina dipendeva da un ingegnoso sistema idraulico, che prelevava direttamente dall'acquedotto civico l'acqua necessaria, successivamente mandata alla giusta pressione per aver la forza sufficiente a dare la spinta. Per la salita occorrevano circa tre minuti e mezzo, con un dispendio di 1400 litri d'acqua. Dopo la chiusura dell'esposizione, la Torre Stigler non fu smontata e rimase in piedi fino al 1924, quando ormai pericolante venne abbattuta.
Nel 1902 Torino fu sede di un'importante esposizione internazionale che di fatto fu la prima manifestazione dedicata esclusivamente alle arti decorative, considerate come un unicum, dall'oggetto di uso quotidiano fino all'arredo urbano, in virtù di un concetto di estetica "globale" che permeava la creatività progettuale di ogni ambito (dall'edificio, al mobile, alla scultura, all'inferriata, etc...). A Torino, in questa circostanza, le cosiddette arti minori si liberavano della "sudditanza" dalla scultura, dalla pittura e dall'architettura per venire annoverate nella categoria delle Belle Arti: si affermava il ruolo sociale ed educativo ormai assunto dall'arte in tutte le sue declinazioni. Tale concezione si riassume nel Cartellone della Prima Esposizione internazionale d'Arte decorativa e moderna, realizzato dal più celebre scultore del periodo, Leonardo Bistolfi: quattro fanciulle sembrando danzare in un prato fiorito, mentre un leggero mosso dal vento le avvolge e traccia nell'aria la parola Ars.
L'Expo piemontese, rendendo protagonisti delle manifestazione artisti e architetti ne affermò l'autonomia professionale nei confronti dell'industria rifiutando ogni strumentalizzazione del lavoro creativo e sottolineando il bisogno di attuare uno stile nuovo e originale in sintonia con le necessità dell'età moderna. L'Articolo 2 del Regolamento Generale dell'Esposizione, infatti, assicurava l'apertura ogni tendenza, a condizione che svicolasse dalle «semplici imitazioni del passato».
Oltre al risveglio delle arti decorative, i promotori dell'Expo, intendevano mettere in mostra anche i progressi ottenuti nei settori industriali e in concomitanza con la rassegna principale furono allestite un'Esposizione di Vini e Olii e un'Esposizione dell'Automobile, entrambe di respiro internazionale.
La manifestazione fu organizzata nel Parco il Valentino, dove venne chiamato a lavorare Raimondo d'Aronco, affiancato dall'architetto Annibale Rigotti e dall'ingegner Enrico Bonelli.
Per ospitare i padiglioni espositivi furono creati edifici di incredibile semplicità esecutiva, ma carichi di un'immaginosa abbondanza di dettagli decorativi, in cui al florealismo delle ultime tendenze italiane si univa una monumentalità nuova, "moderna": il Modern Style entrava a pieno titolo nell'arte della Penisola, assumendo quelle specificità nazionali che lo avrebbero distinto come Liberty. Nel giro di pochi mesi furono costruiti padiglioni, stand, gallerie e saloni in cui la decorazione non veniva utilizzata per arricchire gli spazi interni ed esterni, ma era stata progettata insieme all'architettura con «armonica integrità». Artisti e industriali venivano chiamati allo «studio di tipi di decorazione completa», cioè alla collaborazione nella progettazione di ambienti "completi": ciò si rifletteva non solo nella perfetta simbiosi tra oggetti in mostra e ambiente espositivo, ma anche nella realizzazione di numerose "camere" che potessero adattarsi a tutte le case. In mostra furono così presentati interi ambienti di medesima impronta stilistica, modelli di appartamenti e mobili di forte matrice modernista. In questo senso, fu significativa la presenza milanese, con figure del calibro di Eugenio Quarti, "l'orafo dei mobilisti", di Gaetano Moretti per la ditta Ceruti e di Carlo Zen: le forme contenute ed essenziali per la Sala da pranzo del primo andava a contrapporsi alla sensuale linea Liberty della Camera da letto di Carlo Zen. Altri nomi celebri figurano e nelle cronache dell'epoca sempre, attente a sottolineare l'uniformità di intenti a la varietà di forme ed espressioni che definivano l'ambiente milanese (l'ebanista Carlo Bugatti, Giovanni Beltrami e le sue vetrate artistiche, le ceramiche della Richard-Ginori).
Nel 1893 Ugo Ceruti subentra al padre Michele nel negozio di tappezzerie a Milano: è la prima notizia che abbiamo dell'ebanista. Nel 1902 la ditta riconosciuta come dedita al «commercio di mobili» è presente alla Prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino.
All'esposizione la Ditta Ceruti è seguita da Gaetano Moretti, direttore artistico e progettista di gran parte dei suoi arredi ed è coadiuvata dalla Ditta L. Osnago per la tappezzeria in seta, dall'azienda di Giovanni Beltrami per le vetrate e dalla Ditta Philip Haas per i tappeti. Gli ambienti esposti in mostra sono quattro, tre progettati dall'architetto Moretti, una Camera da letto per signorina realizzata sui disegni dello stesso Ugo Ceruti. Questa stanza, costituita da mobili in legno d'acero dalle linee sobrie e funzionali, si distingue allo stile neo-rinascimentale dell'opera morettiana ed entrambe rimangono legata alla preziosità decorativa dell'incombente stile Liberty.
I mobili della Ditta Ceruti a Torino ottengono in successo enorme, dovuto soprattutto al fatto che la produzione risponde con precisione alla esigenze espositive, cioè di vedere uniti «agli industriali gli artisti in un comune organico lavoro».
Formatosi nell'Accademia Albertina di Torino, nonostante la passione per la terra d'origine, una forte vocazione cosmopolita lo porterà a lavorare prima in Turchia e poi nel Siam, approdando a Bangkok nel 1907.
Rigotti è, però, sensibile all'architettura europea e troveremo spesso attivo a Torino: qui si occupa di alcune case, della risistmeazione della Mole Antonelliana e dei lavori ai padiglioni della Prima Esposizione Internazionale d'Arte decorativa e moderna di Torino del 1902.
Avendo lavorato con Raimondo D'Aronco a Costantinopoli tra il 1893 e il 1896, il giovane architetto interpreta e comprende i disegni e i progetti del maestro: è grazie a lui se l'armoniosa commistione tra architetture e decorazioni immaginata da D'Aronco fu messa in atto.
Milano, via Tasso 10-12
Durante i primi anni del Novecento si assistette a una lenta ma decisa "evoluzione" nello stile di Ulisse Stacchini: l'architetto ingegnere passò da un'architettura ariosa e lineare a strutture un poco più compatte. Sempre costante, però, rimase il gusto per la partizione delle superfici. Testimone di questa "evoluzione" stilistica di Stacchini un'abitazione che costruì tra il 1906 e il 1908 nel capoluogo lombardo, cioè Casa Apostolo. Qui Stacchini costruì un'architettura di monumentale compattezza, ornata motivi fitomorfi e zoomorfi di innaturale compostezza. Alle fasce verticali che definivano la costruzione andava così a opporsi una decorazione "rigida" e quasi severa.
Originario di Valduggia (in provincia di Vercelli), si trasferì giovanissimo a Milano, per studiare al Politecnico di Milano, ateneo di recentissima fondazione (1863), dove si laureò in Ingegneria Civile nel 1867. Lungo la sua carriera fu impegnato in commissioni di vario genere, sia progetti di alcune opere architettoniche, come quelli eseguiti per il Mausoleo dei Visconti di Modrone, ma anche alcune consulenze su piani di recupero e restauro di importanti palazzi; nel 1880 arrivò la commissione più importante: i padiglioni dell'Esposizione Nazionale industriale e artistica di Milano del 1881.
Per i visitatori della manifestazione Ceruti realizzò architetture del più fantasioso eclettismo: al ritmo frenetico di un decorativismo insaziabile, si susseguivano stili neogotici, neorinascimentali, neopompeiani, arabeschi e orientali.
Terminati gli studi all'Accademia di Brera e all'Istituto Tecnico di Milano, a 21 anni si trasferì prima a Roma, poi a Parigi, per aggiornare le proprie conoscenze ingegneristiche e architettoniche, dopo l'"esordio" come architetto nella progettazione generale dell'Esposizione Nazionale industriale e artistica di Milano del 1881, a fianco dell'ingegnere Giovanni Ceruti.
Durante la sua carriera alternò l'esperienza didattica a quella "sul campo", ma soprattutto grazie a frequenti viaggi in Europa, in Palestina, in Egitto, in Spagna alla continua scoperta di nuove realtà architettoniche, aggiornava continuamente il suo estro e la sua creatività.
Nel 1899 fu chiamato a Pavia per insegnare all'università; riprese l'attività professionale solo nel 1905, quando fu chiamato a progettare i padiglioni e a dirigere i lavori per l' Esposizione Internazionale di Trasporti e Belle Arti nell'ambito delle Esposizione universale di Milano del 1906. In questa occasione insieme a Carlo Bianchi, Francesco Magnani, Mario Rondoni, Orsino Bongi, Locati affidò gran parte dei padiglioni all'estroso decorativismo Liberty, senza però escludere i vari stili storici. Oggi rimane testimonianza di questo suo lavoro solo nell'Acquario Civico di Milano, l'unica struttura espositiva superstite.
Fiorentino di nascita, studiò architettura all'Accademia di Brera, allievo di Camillo Boito e di Luigi Broggi. Nel corso della sua carriera, fu coinvolto soprattutto in committenze private e dedicò molto tempo all'attività didattica a Brera. In occasione dell'Esposizione universale di Milano del 1906 venne chiamato da Sebastiano Locati a collaborare alla progettazione dell'Esposizione Internazionale di Trasporti e Belle Arti, per la quale realizzò vari padiglioni. Al contempo, inoltre, gli fu affidata la direzione della sezione Belle Arti nel Comitato esecutivo dell'esposizione.
Degno di nota è il Padiglione delle Arti decorative francesi, tra i più frequentati della manifestazione: Bongi realizzò un edificio «in un fastoso stile corinzio che ricorda il barocco francese», nel quale il candore degli stucchi risaltava l'armonia compositiva delle decorazioni.
Nel 1895 si laureò in Ingegneria Civile al Politecnico di Milano dove fu assistente di Disegno ornamentale, architettonico e di costruzione insieme a Francesco Magnani fino al 1905.
Lo si ricorda soprattutto per il suo contributo ai padiglioni dell'Esposizione Internazionale di Trasporti e Belle Arti - uno dei settori più interessanti dell'Esposizione universale di Milano del 1906, dove lavorò con i colleghi Carlo Bianchi e Francesco Magnani.
I tre ingegneri, insieme all'architetto Orsino Bongi realizzarono padiglioni in cui il prevalente decorativismo modernista era spesso assecondato da qualche reminiscenza storicistica. Alla componente effimera degli stand (erano destinati a venire distrutti a fine esposizione), però, si contrappone l'impressione di una forte solidità strutturale.
Dopo essersi laureato in Ingegneria Civile al Politecnico di Milano nel 1896, Carlo Bianchi diventò assistente di Disegno ornamentale e architettonico presso l'Istituto tecnico superiore di Milano. L'architetto presto affiancò all'attività didattica quella pratica, ricevendo numerose commissioni tra il capoluogo e la provincia lombarda. Nel 1906, sotto la direzione di Sebastiano Locati, progettò insieme ai colleghi Francesco Magnani e Mario Rondoni e all'architetto Orsino Bongi i padiglioni in Piazza D'Armi per l'Esposizione Internazionale di Trasporti e Belle Arti di Milano, realizzando strutture dichiaratamente ispirate all'ormai dominante stile Liberty.
Torinese, studiò al Politecnico di Milano, dove nel 1895 si laureò in Ingegneria Civile al Politecnico di Milano. Qui fu assistente di Disegno ornamentale, architettonico e di costruzione insieme a Mario Rondoni fino al 1905.
Il suo nome è legato all'Esposizione Internazionale di Trasporti e Belle Arti, un settore fondamentale dell'Esposizione universale di Milano del 1906, per la quale progettò alcuni padiglioni insieme ai colleghi Carlo Bianchi e Mario Rondoni all'architetto Orsino Bongi.
I quattro realizzarono strutture di forte declinazione Liberty, anche se, talvolta, indugiavano in eccessive reminiscenze storicistiche. Sempre, però, alla componente effimera dell'edificio (il destino dei padiglioni era la distruzione a fine esposizione), si contrappone l'impressione di una forte solidità strutturale.
Cernobbio, Como
La storia di uno degli alberghi più celebri e lussuosi del territorio italiano ha inizio nel XV secolo, con la fondazione di un convento presso il torrente Garovo. Lì, il secolo successivo, il cardinale comasco Tolomeo Gallio fece realizzare a Pellegrino Tibaldi una villa per l'otium e lo svago. Rimasta in possesso dei Gallio fino al 1749 e poi passata a numerosi proprietari che ne lasciarono intatta la struttura, ritoccando il giardino. Nel 1815 la villa e i suoi 25 ettari di parco furono acquistati da Carolina di Brunswick, sposa del futuro re Giorgio IV, che la ribattezzò Nuova villa d'Este, rimaneggiandola e ampliandola in più parti. Negli anni Settanta dell'Ottocento il complesso passò a una società che lo modificò radicalmente, trasformandolo in un lussuoso albergo. Gli ambienti più eleganti e maestosi furono mantenuti e rimasero pressoché intatti, come piccoli musei in cui ancora oggi si possono ammirare meraviglie di ogni epoca. Altri ambienti, invece, furono cambiati e ristrutturati dagli architetti Odazio, Bigatti e Bergomi. Dalle stazioni ferroviarie di Como e di Chiasso un autobus privato portava direttamente all'albergo, dove facoltosi borghesi, aristocratici, intellettuali e politici trovavano lusso, magnificenza e comodità rari anche in un Grand Hôtel.
Quando, sul finire del Ottocento, si affermò la moda della villeggiatura estiva, Villa d'Este fu organizzata di conseguenza: un lido attrezzato veniva messo a disposizione dei clienti, che potevano rilassarsi su una piattaforma a pelo dell'acqua o buttarsi dal trampolino; nel parco erano stati realizzati campi da tennis, dove si poteva partecipare tornei o seguire lezioni del nuovo sport; a meno di mezz'ora d'automobile, infine, si raggiungeva il campo da golf a diciotto buche, considerato negli anni Trenta del XX secolo il migliore della Penisola e frequentatissimo. Ancora oggi è l'albergo è uno dei più prestigiosi del territorio: l'atmosfera preziosa delle rive lariane continua a sentirti forte e piena della mondana voglia di vivere della Belle Époque.
Project manager: Villa Vigoni, Centro Italo-tedesco
Testi: Caterina Pascale Guidotti Magnani
Bibliografia: Carina Kaplan
Fotografia: Alessandro Morelli
Concept & software: Pixeloose Studio
© Regione Lombardia - Villa Vigoni, Centro Italo-tedesco